Da mesi compagnie di streaming come Netflix e HBO Max sono di fronte a cali di iscrizioni, a cui seguono licenziamenti e titoli cancellati dalle loro librerie.<\/p>\n
Questo perch\u00e9 il loro modello imprenditoriale si basa sul continuo rinnovamento di abbonamenti misto a un’infattibile crescita senza sosta in iscrizioni (al contrario di film e serie al cinema e in TV, che incassano sulle varie messe in onda). Per convincere la gente a restare, le piattaforme generano allora contenuti su contenuti ma, dati i ritmi insostenibili, la qualit\u00e0 si abbassa fino a perdere importanza, con la viralit\u00e0 che diventa metro di misura.<\/p>\n
Non sono pi\u00f9 le storie o il taglio artistico a valorizzare una pellicola, bens\u00ec quanto questa sia in grado di diffondersi: ci\u00f2 porta, anche tramite l’utilizzo di algoritmi per predire i gusti di chi guarda, sia a creare film che spuntino tutte le caselle di viralit\u00e0 (creando un agglomerato perlopi\u00f9 senz’anima con contenuti pressoch\u00e9 identici), sia a produrre contenuti a basso sforzo (primi fra tutti i reality, che compensano con la carica emotiva dei partecipanti).<\/p>\n
Sembra per\u00f2 che questo non implicher\u00e0 la loro disfatta: citando i filosofi Adorno e Horkheimer, questi contenuti svolgono il ruolo dell’intrattenimento come “prolungamento del lavoro. Lo si ricerca come fuga dal processo lavorativo meccanizzato, e per recuperare le forze in modo da poter riaffrontare quel lavoro nuovamente”. In altre parole, guardare certi programmi di dubbia qualit\u00e0 risponde alla necessit\u00e0 di staccare la spina in un mondo che non ci lascia abbastanza tempo, nutrendosi di quel tempo e impedendoci di fare davvero dell’altro<\/p>\n