Le grandi aziende tecnologiche non sono mai state semplici fornitrici di dispositivi o servizi, ma veri e propri imperi digitali che esercitano un controllo significativo sulla nostra vita quotidiana. Decidono come trascorriamo il tempo, come lavoriamo e persino come comunichiamo. Giganti tecnologici, che ora resistono a qualsiasi tentativo di limitarne l’influenza.
Quando si accettano i loro termini di servizio, documenti complessi e pieni di gergo legale che richiedono ore per essere letti, ci si ritrova di fatto vincolatÉœ a condizioni inique. L’Unione Europea, su questo fronte, ha cercato di tutelare lÉœ cittadinÉœ con il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (RGPD, o GDPR), ma queste aziende continuano a imporre le proprie visioni: accettarle diventa l’unica opzione per accedere ai loro servizi, pena l’esclusione. Internet, nato come spazio di libertà, si è trasformato nel loro dominio privato, dove le loro norme prevalgono sulle leggi nazionali.
In tutto questo, il nostro rapporto con la tecnologia è cambiato radicalmente. Non si possiede più granché: si paga per accedere a servizi che un tempo si sarebbero acquistati definitivamente. Netflix ha sostituito i DVD, gli abbonamenti a Office hanno rimpiazzato i programmi installati sui computer e persino gli elettrodomestici si stanno trasformando in servizi a noleggio. Non si tratta solo di una questione economica, ma di un cambiamento che ridefinisce lo stile di vita.
Le conseguenze di queste dinamiche sono ormai evidenti.
Airbnb contribuisce all’aumento dei prezzi degli affitti nelle città, mentre Uber precarizza il lavoro dellÉœ conducenti. Amazon soffoca il commercio locale imponendo condizioni di lavoro discutibili. Google determina ciò che si può trovare online, mentre Meta trasforma le relazioni sociali in prodotti per inserzionistÉœ. Apple vincola al suo ecosistema chiuso, TikTok compromette la capacità di concentrazione e Twitter X dimostra la fragilità della libertà di espressione nel mondo digitale.
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