Nel suo saggio filosofico L’attentato, Manfred Schneider ripercorre il corso della storia per dare la definizione di “attentatore”, ma soprattutto per definire cosa sia la paranoia. Passando per personaggi come Giulio Cesare, Caligola, Napoleone, Nietzsche e Kennedy, il filosofo tedesco delinea le caratteristiche dell’attentatore occidentale, che siano le guardie che cercano di accoltellare un imperatore o un kamikaze dei giorni nostri.
L’attentatore, dice Schneider, è un lupo solitario che, sentendosi impotente, combatte la sua crociata in solitudine. Il suo bersaglio non è tanto una persona specifica in quanto persona, bensì in quanto potere che essa rappresenta: Lincoln come simbolo di opposizione all’indipendenza sudista, Marat come personificazione della Legge dei sospetti francese del 1793, Warhol come simbolo della società patriarcale.
Dato che l’attentatore sa di essere molto piccolo rispetto al potere che vuole combattere, egli punta più sul lasciare un ricordo di sé nella speranza che altri possano destarsi e abbracciare la causa – o, in altre parole, punta a farsi martire. Questa cosa era risaputa già al tempo dei romani, e difatti la lex iulia aveva lo scopo di farne da deterrente. Essa, la lex iulia, era una legge che oltre a condannare gli attentatori, si assicurava anche di cancellarli dalla storia. Strappava loro, insomma, la speranza di essere ricordati. Al contrario, gli imperatori e i sovrani – che dovevano essere ricordati – e i nobili – che volevano essere ricordati –sono giunti a noi tramite gli scritti e le immagini: statue e dipinti di sé, città col proprio nome, monete col loro volto, palazzi a loro dedicati, odi, torri, mausolei; tutto in nome di un segno indelebile nella storia. Chi aveva il potere, in altre parole, poteva permettersi di rimanere nelle memorie dell’uomo.
Se ci si pensa bene, oggi l’essere umano non è poi così diverso da quello di un tempo. Grattacieli, loghi, filantropia, sono sempre un modo per attestare potere e/o un ricordo di sé. C’è una cosa, tuttavia, che non è rimasta la stessa: gli strumenti a disposizione.
Le immagini, infatti, non sono più solo in mano ai potenti, perché moltissime persone al giorno d’oggi dispongono di una connessione internet, di un telefono, di un computer. Le immagini sono ora nelle mani di tutti, e alcune di esse stanno cambiando il mondo. Si pensi ad esempio alle proteste in America, a quei poliziotti che sono stati licenziati grazie a video girati da comuni cittadini che testimoniavano i loro abusi, o a chi rischia la vita andando in zone di guerra per mostrarne gli orrori. Questi strumenti, dunque, hanno progressivamente ridistribuito il potere in mano ai più, evitando di sentire solo la campana di chi ha maggiore influenza (anche se questo fenomeno non è affatto debellato).
Tra i più, tuttavia, vi rientrano anche individui come appunto i terroristi, ed è qui che il discorso inizia a diventare una lama a doppio taglio. Perché se si considera la società odierna come una “società del baccano”, dove chi fa più rumore riceve più attenzioni – distaccandosi dal costante brusio di sottofondo – i telegiornali, programmi televisivi e internet non diventano che una cassa di risonanza per gli attentatori, dando loro esattamente ciò che più desiderano: attenzioni. Registrare e caricare un video è infatti estremamente facile, avere un diario da condividere online anche, senza contare chi le stragi le ha raccontate facendo dirette su internet. Un esempio è il massacro islamofobo nelle due moschee di Christchurch, Nuova Zelanda, che nel 2019 vide la brutalità di un uomo uccidere 51 persone, sparando sulla folla, accanendosi sui feriti per eseguirli, e passando sui loro corpi mentre ascoltava canzoni. Il tutto in diretta Facebook.
Altri attentatori odierni hanno invece sfruttato le immagini alle quali siamo abituati – per l’esattezza quelle da film Hollywoodiano – per raccontare le loro crociate come se fosse il grande schermo. Primi fra tutti i membri dell’ISIS, che tra le sue file vantava appunto ex produttori cinematografici per rendere il proprio messaggio più avvincente.
Ha senso, quindi, in questi casi, ristabilire una lex iulia?Se l’attentatore vuole attenzioni, che gli si stacchi la spina e che si finga che non esista: prima o poi smetterà. Tuttavia è ingenuo pensare che una cosa del genere accada oggi, dove i social come Facebook fanno spallucce alle dichiarazioni di un presidente che incita alla violenza, e dove “deresponsabilizzazione” sembra la parola più adatta a definire il mercato e il nostro stile di vita. Ma a prescindere da ciò, una nuova lex iulia non dovrebbe essere la risposta, perché non farebbe che fingere che il problema non esiste: se questi fenomeni ci sono, è dovere che se ne parli e che si rifletta sul perché ci sono. Altrimenti, con la stessa logica si potrebbe evitare di parlare dell’Olocausto, della caccia alle streghe e di qualsiasi altro aspetto che abbia infuso terrore e morte nella storia dell’uomo.
Cosa fare dunque?
Ritornando alle immagini, Schneider mette ben in chiaro il ruolo dell’attentatore, definendolo “una variabile casuale come risposta al controllo”: quello che fa il terrorista, in altre parole, è ricordare al mondo che il controllo assoluto non esiste e che, pur nella sua impotenza, è in grado di dimostrarlo – che sia facendosi saltare in aria o accoltellando civili per strada. Quando quindi lo Stato promette una maggior sicurezza nazionale con una sorveglianza più attiva, paradossalmente non sta che carburando un possibile attentatore nel dimostrare che quel controllo non esiste. Nello specifico, quando lo Stato decide di installare più telecamere per il medesimo motivo, non sta che ampliando il palcoscenico del terrore. Questo perché, in primo luogo, non sono di certo le telecamere a fermare una persona che, immersa nella paranoia, vuole seminare caos per dimostrare di non essere impotente. E perché, in secondo luogo, le telecamere hanno in generale un impatto psicologico sulle persone, in quanto veicolano l’idea che bisogni sempre stare all’erta. Paradossalmente, questo fa il gioco del terrorista, dacché veicola lo stesso identico messaggio: dove avverrà il proprio attacco? dall’altra parte del mondo o sotto casa propria? E quando?
Quella che si ottiene è dunque una spirale angosciante e senza fine, che il sociologo francese Baudrillard ben riassunse parlando dell’attentato alle Torri Gemelle: “Son loro che l’hanno fatto, ma noi che l’abbiamo voluto”. Il filosofo italiano Galimberti infatti, fa notare come questa repressione tramite la sorveglianza sia pericolosa tanto quanto il terrorismo, perché ci porta a diventare una società diffidente e fondamentalista; non una società che si basa sui perché e sull’esercizio della ragione, che indaga le cause con umanità per evitare che si ripetano, bensì una società egocentrica che si guarda costantemente alle spalle, che pensa di essere nel giusto e che debba proteggersi dal “nemico”, chiunque esso sia. Tuttavia, il mondo è molto più complicato di così. Come esercizio di empatia, ci si potrebbe infatti chiedere cosa pensarono i libici quando Hillary Clinton raccontò l’omicidio di Gheddafi con “siamo andati, abbiamo visto [la situazione], ed è morto” sghignazzando di gusto, cosa pensava il Vietnam quando l’America fece piovere napalm rovente su chi non concordasse con loro, o gli africani che a causa del colonialismo europeo sono stati separati dalle loro tribù per essere messi con altre a loro nemiche in stati tracciati col righello; o ancora chi si è ritrovato coinvolto nelle guerre per il petrolio in Medio Oriente. La concezione di terroristi, per queste persone, è molto diversa dalla nostra.
Al posto di innalzare barriere e punire tutti con della sorveglianza di massa – che a sua volta punisce psicologicamente, che spinge a sorvegliare di più, che punisce psicologicamente, e via all’infinito – forse si dovrebbe tornare ai perché di questi gesti. Per quanto riguarda gli attentati, Schneider ci dice che la maggior parte degli attentatori sono maschi che puntano a un nuovo potere o all’anarchia, mentre la più piccola controparte femminile punta a un ideale di pace. Tracciandone un profilo psicologico, il filo conduttore dell’attentatore occidentale pare essere la mancanza di una figura paterna come punto di riferimento, che porta più facilmente l’individuo alla paranoia nella ricerca di una costante nella sua vita. Semplificando il discorso, la mancanza di affetto in una società con radici patriarcali contribuisce a generare attentatori e morte.
Per quanto riguarda i terroristi che vengono “dall’esterno”, non è un segreto che lo stile di vita dell’Occidente sia responsabile della povertà e della sofferenza del mondo (basti vedere gli esempi citati precedentemente). In un mondo ideale e dotato di empatia, si potrebbe ovviare con non troppa difficoltà a questi problemi, ma l’astrazione, l’avarizia e la legge della giungla legittimate dal mercato tendono invece a farci fare spallucce perché “non dipende da me”, mai. Sempre per citare Galimberti, in questo caso il terrorismo quindi non è che un gesto di disperazione di un senza voce, schiacciato dallo sfruttamento per la ricchezza di qualcun altro, nonché dalle enormi diseguaglianze economiche che regolano il pianeta.
Riassumendo: più affetto, comprensione dell’altro e meno sfruttamento portano a un minor numero di attentati. Al contrario, una sorveglianza sempre più stringente a difesa di una diseguaglianza sempre più marcata non fa che peggiorare l’angoscia, la sofferenza e i morti sul lungo corso. Ancora una volta, dunque, non è la tecnologia la risposta ai nostri problemi. Non è da cercare “là fuori”, in qualche soluzione rapida e indolore che ci permetterà in men che non si dica di tornare alle nostre vite frenetiche. La risposta, per quanto banale, è dentro di noi. E richiede tempo, sforzi, responsabilità. Sta a noi, alla fine, decidere come vogliamo essere e che tipo di mondo vogliamo lasciare a chi verrà. Non alle cose.
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