La lista degli Individui e Organizzazioni Pericolose è un documento interno di Facebook/Meta risalente almeno a nove anni fa. Da mesi questa lista sta venendo scandagliata dall’Intercept, rivelando essenzialmente come Facebook rinforzi le visioni politiche statunitensi nel mondo.
La sua applicazione non è imparziale: il Medio Oriente, l’Asia, le comunità nere e latine vengono trattate con maggiore severità, mentre al contrario, le estreme destre bianche vengono generalmente prese sottogamba. Un esempio è la testata srilankese Tamil Guardian, che Jillian York dell’Electronic Frontier Foundation ha definito vittima di un processo di “cancellazione storica e culturale”. La testata è infatti stata sospesa – e più volte censurata – dal social per aver documentato una defunta milizia del paese, le Tigri del Tamil, cosa che però non provoca punizioni alle testate occidentali che si occupano del medesimo tema. Come se una testata in Italia venisse punita per aver parlato di storia del fascismo, ma venisse permesso poi all’Australia di trattarne senza problemi.
Se da un lato Facebook ostracizza chi osa documentare pezzi infelici del proprio passato, sembra tuttavia chiudere un occhio verso chi quei pezzi infelici li dissotterra per il proprio futuro.
Il Battaglione Azov è un gruppo ucraino neonazista, presente come molti altri nella lista degli Individui e Organizzazioni Pericolose dell’azienda. Con lo scoppiare della guerra, vedendolo impegnato a combattere sul fronte per respingere l’invasione russa (insieme a tantissimi altri reggimenti che nulla hanno a che vedere con il nazismo), il 24 febbraio l’Intercept riporta come Facebook abbia cambiato le sue politiche nei confronti del battaglione: i commenti a supporto di Azov potranno rimanere, a patto che non inneggino esplicitamente al nazismo.
Per quanto la moderazione sia complicata e il mondo non sia bianco o nero, che il Battaglione Azov sia neonazista non dovrebbe lasciare grandi dubbi, a partire dal loro stemma: un sole nero sullo sfondo – simbolo oggi usato da gruppi di estrema destra, neonazisti e suprematisti bianchi – con un gancio per lupi (Wolfsangel) specchiato che svetta al centro – altro simbolo usato al tempo del nazismo, poi sostituito dalla più conosciuta svastica. Neanche i fatti di cronaca lasciano a interpretazioni: nel 2020 l’ora generale ha definito il fondatore dell’organizzazione neonazista Wotan Jugend come “un’ispirazione per i giovani di Azov”, mentre nel 2015 il battaglione aveva mostrato interesse verso i movimenti di estrema destra statunitensi. Ancora, nel 2010, colui che sarebbe diventato primo comandante nel 2014 aveva dichiarato che l’obiettivo dell’Ucraina fosse “guidare la razza bianca in una crociata decisiva contro i subumani (Untermenschen) capitanati dai semiti”.
Al di fuori dell’etica pienamente calpestata (in linea con la storia dell’azienda, a partire dai ripetuti abusi verso i moderatori di contenuti), Facebook è una compagnia da miliardi di utenti connessi ogni giorno: il rischio di creare dei simpatizzanti ingenui del Battaglione e di riscrivere la storia in un’era cavalcata dalla disinformazione (carburata proprio da social come Facebook) è concreto, nonché altamente pericoloso. Il combattere dei piccoli nazisti contro i grandi fascisti non dovrebbe rendere i primi meno crudeli. Cosa succederebbe, per esempio, a ruoli invertiti?
Non è comunque la prima volta che Facebook si autoproclama giudice, giuria e boia, sbilanciandosi in prese di posizioni sullo scacchiere geopolitico: l’anno scorso sempre l’Intercept riportò come, nel conflitto israelo-palestinese, Facebook stesse strozzando i tentativi di critica nei confronti di Israele, utilizzando l’ambigua parola “sionista” a seconda di come le facesse comodo. Se infatti un coinvolgimento nelle elezioni presidenziali statunitensi era possibile giustificarlo con semplice avidità e mancanza di morale (più spazi pubblicitari e interazioni = più soldi), in questi casi Facebook diventa estensione di un disegno politico ben definito che risponde al proprio governo. Una cosa che, attenzione, non deve risultare così strana: la cinese TikTok, per esempio, due anni fa aveva temporaneamente rimosso “per sbaglio” chi parlava cantonese piuttosto che mandarino, dove quest’ultima è lingua ufficiale (mentre la prima è parlata soprattutto nell’area di Hong Kong).
Queste compagnie, in altre parole, rispondono in qualche misura alla nazione dove sorgono (seppur perseguendo anche i propri interessi), e bisogna far molta attenzione nel non cascare in quella falsa idea che le vede come entità neutrali. Bisogna anzi chiedere sempre maggiore trasparenza, per far sì che eventi come quelli del Battaglione Azov non rimangano nell’ombra.
Per quanto possiamo essere tentati di schierarci da una parte o dall’altra del dibattito – è giusto o no supportare i neonazisti che combattono i russi? – è importante rendersi conto che la domanda cruciale è un’altra: in una democrazia funzionante, ha senso che siano lasciate a Facebook, un’azienda statunitense quotata in borsa con propri obiettivi commerciali, decisioni di questa importanza sociale, umanitaria e politica?
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