Chi guarda i cinesi? Il Partito

Su come la Cina controlli e filtri tutta la sua rete internet e telefonica

Questo articolo è il primo di una serie di 2. In questa occasione si vuole dare un quadro generale dell’utilizzo della tecnologia in Cina, trattando poi di due casi specifici – quelli della minoranza musulmana degli uiguri e del Tibet – nel secondo.

La tecnologia è uno strumento, né giusta né sbagliata. Come con un coltello possiamo decidere se affettare del pane o accoltellare qualcuno, con la tecnologia possiamo decidere se creare strumenti che aiutino le persone o strumenti che facciano loro del male. In questo caso, a ripresa di un precedente articolo sulla quasi necessità di sentirsi rassicurati dalle telecamere, parleremo di come l’accentramento di potere (un regime totalitario) misto a milioni di telecamere e un notevole progresso tecnologico abbiano tramutato il barlume di libertà già fioco di un’intera nazione, la Cina, in un lontano ricordo. Attenzione: non si sta insinuando che prima dell’avvento delle telecamere la Cina fosse un paese libero e democratico, basti guardare al 1978 per le politiche del figlio unico che portò le donne alla sterilizzazione forzata e allo sterminio delle figlie femmine (con conseguente tratta di “spose schiave” dai paesi del sud-est asiatico). Né si vuole insinuare che il resto del mondo sia rosa e fiori. Quello che si vuole affermare è, invece, come certi strumenti (telecamere, telefoni, internet) stiano venendo usati per aggravare la situazione, in una mania del controllo al quale lo stato cinese non vuole venire meno. E che no, la situazione negli Stati Uniti non è comparabile a quella cinese.

Telecamere

La nostra storia inizia nel 2005 con il progetto Skynet. Skynet aveva l’obiettivo di riempire di telecamere tutte le aree urbane e industriali entro il 2020. La copertura della capitale Pechino fu per esempio ultimata nel 2015, per un totale nel 2017 di 176 milioni di telecamere sparse nella nazione, ovvero una ogni 8 persone. CCTV, un’emittente cinese, faceva notare all’epoca come 20 milioni di quei 176 fossero in grado di riconoscere veicoli e distinguere l’età, il sesso e l’abbigliamento dei passanti in tempo reale, tramite un’intelligenza artificiale. Queste funzioni venivano impiegate – e tuttora vengono impiegate – per esempio per multare chi non attraversa sulle strisce, senza risparmiare loro un’umiliazione pubblica sui grandi schermi della città per accentuare il senso di vergogna. Intelligenze artificiali, chiariamo, non proprio ottimizzate, in quanto non sono mancati casi dove persone ritratte nelle pubblicità sulle fiancate dei bus siano state scambiate per pedoni.

Nel frattempo gli anni passano e la tecnologia avanza, dacché a settembre 2019 viene annunciata in Cina una telecamera da 500 megapixel in grado con un singolo scatto di applicare il riconoscimento facciale a decine di migliaia di persone in uno stadio. Per identificare le persone, sia in questo caso che in quello dei pedoni, è necessario dall’altra parte qualcosa con cui fare il confronto (come sappiamo che ad attraversare è stato Tizio piuttosto che Caio?). Ovvero, per fare quello che fanno, queste telecamere devono essere connesse a un database contenente i volti di tutti i cittadini. Ad agevolare inoltre il controllo, misure che richiedono o eseguono il riconoscimento facciale stanno prendendo sempre più piede, come all’entrata del parco naturale di Hangzhou, o quando si vuole un nuovo piano di telefonia mobile.

Tornando a Skynet, nel 2018 si decise di convergerlo nel progetto Sharp Eyes. Quest’ultimo, nato nel 2011, si rifà al detto maoista “people have sharp eyes” (la gente ha una buona vista), incoraggiando gli abitanti delle campagne a sorvegliare i propri concittadini per ridurre le spese sulla sicurezza. Se prima Sharp Eyes era spionaggio vecchio stile, con l’ibridazione di Skynet è diventato digitale: ora le persone possono infatti connettersi alle telecamere dei loro paesini dalle loro TV e dai loro telefoni, per contribuire a un miglior monitoraggio e segnalare i sospetti. Di particolare rilevanza è ciò che succede nella città di Linyi, nella provincia dello Shandong, dove ogni giorno a mezzogiorno degli altoparlanti trasmettono un messaggio per spronare gli abitanti a partecipare nella denuncia dei crimini. Per raffozare l’idea, sono stati stampati 40 milioni di volantini anticrimine, 25.000 poster e diverse pubblicità sparse tra mezzi pubblici e grandi schermi. Solo a Linyi nel 2018 si contavano 360.000 telecamere, per un totale di quasi 3 milioni nella provincia dello Shandong.

Il quadro dunque è quello di una propaganda volta a esasperare il concetto di “sicurezza” e di “giustizia”, dove monitorare è preventivo e dove lo stato è quasi una figura paterna che salva dal male; come ha dichiarato infatti Wang Yujun, segretario municipale del Partito Comunista di Linyi: “Per rimuovere il male una chiave esiste: affidarsi totalmente al governo”. Narrazioni come queste rendono purtroppo inevitabili paragoni con mondi distopici come 1984 di George Orwell, che funzionava in modo molto simile: schermi per monitorare i cittadini (se la TV è connessa alla telecamera alla quale lo stato ha accesso, è probabile che abbia accesso anche alla TV), cittadini che monitorano altri cittadini, poster e pubblicità che ricordano di rigare dritto e in ultimo la paura di essere osservati e giudicati per tutto ciò che si fa. Ma spingiamoci oltre, su un mezzo che Orwell non aveva immaginato nel suo futuro distopico: quanta libertà c’è nella rete?

Internet

Era il 1994 quando internet arrivò in Cina… e il 1996 quando i primi tentativi di censura vennero applicati.
Due anni dopo, nel 1998, quando la soppressione del Partito Democratico Cinese fece parlare di sé, la censura internet come la conosciamo oggi prese vita sotto il nome di Progetto Golden Shield (scudo dorato). Sotto l’ingegnere Fang Binxing la Cina costruì svariati modi per controllare il traffico internet in entrata e in uscita, in quello che è stato poi definito Great Firewall (la Grande Muraglia Digitale, tuttora attiva), con il compito di decidere quali siti potevano passare e quali no. È per questo che siti come Twitter, Facebook, YouTube, ma anche siti di testate giornalistiche come il New York Times ed emittenti televisive come HBO (qui una lista dettagliata) non funzionano in Cina. Un caso a parte è invece Google che nel 2006 ha aderito a portare una versione autocensurata di sé, che non produceva risultati quali Piazza Tiananmen 1989. Il motto “Don’t be evil” della compagnia americana ha lasciato alquanto a desiderare in un tira e molla “censura ok-censura non ok” fino a dicembre 2018. O anche la Microsoft con Skype, che pur di espandersi sul mercato non si è fatta problemi a lavorare con una compagnia cinese per una versione a parte, che rispondesse alle leggi cinesi di raccolta dati e che applicasse censure quando necessario.

Il controllo del traffico non era comunque sufficiente: notando che internet era un ottimo mezzo per la libertà d’espressione e la crescita di idee differenti da quelle del Partito, nel 2004 la Cina si mobilitò con un esercito digitale di persone chiamate wu mao dang, il “gruppo da 50 centesimi”. Queste persone fanno due cose: segnalano chi non segue le leggi cinesi online, e sviano le discussioni rendendole “pro” Partito. Nel 2013 erano stimati a 2 milioni, e nel 2016 postavano circa 446 milioni di commenti l’anno. Si ricorda inoltre che dal 2013 la pena per creare post non in linea con l’ideologia governativa che ricevono più di 500 condivisioni o 5000 visualizzazioni, è fino a 3 anni di carcere. Con metodi di interrogazione alquanto brutali.

Da fine 2012, con l’arrivo dell’attuale presidente cinese Xi Jinping, la morsa su internet si è fatta più stretta. Prima di allora infatti, i cinesi erano ancora in grado di utilizzare la rete come mezzo di collaborazione: nel 2009 Deng Yujiao, una cameriera, rifiutò di avere un rapporto con un ufficiale del Partito, finendo per accoltellarlo e ucciderlo quando tentò di stuprarla. Quando si seppe in giro, la rete iniziò con lo slogan “Tutti potrebbero essere Deng Yujiao”, con tanto di attivisti coinvolti. E pare che furono proprio queste pressioni sull’opinione pubblica che evitarono il carcere a Yujiao. Ulteriore caso fu l’incidente ferroviario del 2011 a Wenzhou, che vide 40 morti e 172 feriti: dato che il governo aveva promosso l’alta velocità come qualcosa di glorioso per la nazione, i vari media iniziarono a non parlarne “così” male. Tuttavia gli utenti di Sina Weibo, il Twitter cinese, fecero circolare le foto dell’incidente sul social, diffondendo gli accadimenti nudi e crudi e lasciando poco spazio all’immaginazione.

Come si stava dicendo, da fine 2012 le cose sembrano essere peggiorate: oltre le sanzioni sopracitate che hanno spinto le persone a stare più attente a ciò che scrivono, nel 2015 un ulteriore tentativo di tagliare i ponti con ciò che non è la Cina è stato fatto tramite il blocco delle maggiori VPN (servizi internet usati, in questo caso, per scavalcare la muraglia digitale). E, dato che la gente usa ironicamente Winnie The Pooh per riferirsi a Xi Jinping, nel 2017 spazi come il loro motore di ricerca Baidu hanno aggiunto nella lista di termini banditi l’orsetto giallo (ricorda un po’ Erdoğan con Gollum). Sempre del 2015 è il famoso Sistema di Credito Sociale, una rete di punteggi che valuta le abitudini e i comportamenti dei cinesi. Questo sistema che prevede punizioni come non poter prendere i treni ad alta velocità e non poter andare all’estero, per vantaggi come avere più visibilità su app di incontri e sconti sulle bollette, dovrebbe servire a rendere le persone e le istituzioni più affidabili e aiutare a punire chi è sulla lista nera del governo. Queste liste, chiariamo, esistevano da prima dell’arrivo di internet tramite TV e giornali, ma non erano molto efficaci. Ora invece, gli identikit passano anche attraverso le pubblicità di TikTok (抖音, duoyin in cinese) ed essendo le persone facilmente rintracciabili grazie alla tecnologia, trovarle è un gioco da ragazzi. Si specifica che non stiamo parlando di terroristi, ma di persone che non si comportano come il governo vorrebbe (in quanto è il governo a scegliere cosa sia giusto e cosa no).

Ricapitolando: la Cina ha, nel corso degli anni, costruito un enorme compartimento stagno digitale, censurando tutto ciò che non fosse in linea con il Partito Comunista. Per aumentarne l’effetto ha indetto sanzioni come il carcere e lasciato che altre persone facessero il lavoro di ricerca per loro, sviando ulteriormente l’opinione pubblica con ingenti ondate di propaganda online e scoraggiando chiunque a scrivere cose contro il Partito. I comportamenti sulla rete sono poi monitorati da un sistema di credito sociale opaco con impatti sul mondo reale, con sempre più aziende che aderiscono, come l’app di messaggistica WeChat. In altre parole, esprimere la propria opinione online è proibitivo, e la realtà viene distorta da censure sempre più strette e assurde, come sensibilità dei leader danneggiate da Winnie The Pooh.
Si vuole concludere il tutto parlando di telefonia, l’ultima ipotetica frontiera per un dialogo libero.

Telefonia

Nel 2015 nella regione dell’Anhui si contava un database di 70 mila campioni vocali. Con metodi opachi riguardo l’ottenimento di tali campioni, utilizzati per migliorare la tecnologia di riconoscimento vocale del Progetto Golden Shield sopracitato, questi sono stati usati (e forse usati ancora) nelle normali chiamate nel tentativo di scovare dissidenti e criminali senza alcun preavviso. Questo è aggravato soprattutto nella regione autonoma dello Xinjiang dove, nel 2016, sono stati installati 14 nuovi modi per collezionare campioni vocali e facciali. Un report del 2017, al contrario, narra della raccolta dei campioni per motivi preventivi di antiterrorismo.

Per quanto riguarda i telefoni invece, l’app ufficiale del Partito Comunista è stata trovata a raccogliere dati e a inserire accessi remoti (backdoor) con permessi da amministratore sui cellulari di chi l’aveva installata, dando quindi la possibilità alle autorità di fare sul telefono infetto tutto quello che è possibile fare con un telefono. Si potrebbe pensare che nessuno sia obbligato a installare un’app simile, ma non è così: l’app, chiamata “Studia la Grande Nazione” e sviluppata dal colosso del commercio all’ingrosso Alibaba, è richiesta da alcuni datori di lavoro pena detrazione dello stipendio. E per chi vuole dedicarsi alla professione di giornalista, è obbligatorio superare un test sulla vita del presidente Xi – presente sull’app.
Sempre parlando di app, le autorità cinesi sono state trovate a installarne una chiamata BXAQ sui telefoni Android di qualsiasi turista varcasse il confine tra il Kyrgyzstan e la già menzionata regione dello Xinjiang: questa funzionava da scanner, inviando a un server i contenuti del cellulare ed eventuali “allarme rosso” per cose non tollerate dal Partito. Nessun avviso è mai stato comunicato, né prima né dopo l’installazione.

Il quadro dato è alquanto chiaro: il popolo cinese non ha la benché minima possibilità di fare, dire o scrivere quello che pensa se va contro l’ideologia del Partito (che è la definizione di totalitarismo). La loro vita è monitorata per le strade, per la rete; il telefono non è che un ulteriore orecchio governativo. Si è disincentivati dall’esprimersi con la minaccia del carcere, nella paranoia che qualcuno – spinto da paura, da ignoranza o da lavaggio del cervello tramite propaganda – possa inoltre segnalare comportamenti sospetti. Per non lasciare vie di scampo, le identità online sono sempre più collegate a quelle reali, e i database ampliati sempre di più con il pretesto del terrorismo. Non c’è, infine, possibilità di sentire un’altra bandiera, perché lo Stato si guarda bene dal lasciare spiragli per qualsiasi cosa  che non rientra nella sua visione. In un quadro del genere, se niente cambia, le future generazioni nasceranno, vivranno e moriranno dentro un enorme filtro. Anzi, questo già succede con i più giovani, che non sanno cosa sia successo nel 1989 in Piazza Tiananmen.

A proposito di cose che non rientrano nella visione statale, la seconda parte indagherà proprio ciò: di variabili fastidiose e di come siano state soggiogate dallo stesso abuso tecnologico. Del Tibet e dello Xinjiang. Vai alla seconda parte


Ti potrebbe interessare:
Sorvegliare è punire
Quando il videogioco diventa una scelta politica: di Tencent, Blizzard e Riot Games