Logo di BLM con una chiave inglese in mano. Sullo sfondo un'illustrazione di persone felici che riparano un trattore

“Se non lo puoi riparare, non è tuo”

Un'introduzione al movimento per il diritto alla riparazione

Secondo un rapporto dell’International Telecommunication Union, nel 2019 c’è stato un record di 53.6 milioni di tonnellate di prodotti elettronici scartati, ma solo il 17.4% di questi dispone di documentazione che attesta un corretto riciclo. Un’infografica dello stesso anno, presente sul sito del Parlamento Europeo, riporta che mediamente in Europa meno del 40% dei prodotti elettronici vengono correttamente riciclati, e per quanto riguarda computer e telefoni, si scende al 14%.

Per quanto si potrebbe sicuramente fare di più per incrementare queste percentuali, è tuttavia importante sottolineare che non si può riciclare all’infinito. Da un punto di vista ambientale, infatti, il dispositivo più ecologico è quello che già si possiede – senza contare lo sfruttamento di terre rare con i dannosi processi estrattivi e rischi geopolitici che ciò comporta.

È per questo e altri motivi che nasce il diritto alla riparazione: un movimento volto a rimuovere le barriere che impediscono alle persone di riparare e modificare i propri dispositivi.

È infatti difficile credere che un’auto sia davvero nostra quando, per esempio, per avere accesso a tutte le sue funzionalità bisogna pagare un abbonamento mensile. O che, nonostante un collasso climatico alle porte, si possano ancora giustificare prodotti progettati per diventare obsoleti prima del tempo (la famosa obsolescenza programmata), generando maggiori rifiuti pur di far soldi. I prodotti diventano sempre più complessi, e questa complessità viene sfruttata dagli industriali a danno delle persone, limitando loro la possibilità di intervento sui prodotti acquistati.

Gli agricoltori statunitensi contro John Deere per il diritto alla riparazione

Quando parliamo di diritto alla riparazione è bene sottolineare che non ci si riferisce solo a telefoni o portatili, bensì a qualsiasi prodotto tecnologico; trattori inclusi.

John Deere è una delle principali aziende produttrici di macchine agricole, famosa per le sue feroci pratiche antiriparazione, e che ha spinto molti agricoltori a diventare attivisti per la causa. Il controllo che può esercitare l’azienda sui propri macchinari è infatti notevole, se si considera, tra le tante, che è riuscita a disabilitarli da remoto durante la guerra in Ucraina.

Quando un trattore deve essere riparato, gli agricoltori devono chiamare un tecnico specializzato della John Deere, che potrebbe metterci giorni, settimane, per intervenire, oppure addirittura rifiutarsi di assisterli (se non sono clienti abbastanza redditizi). Viene da sé che avere dei mezzi fuori uso in un lavoro stagionale come quello degli agricoltori può provocare ingenti sprechi e perdite economiche.

Alle compagnie tuttavia non sembra molto tangere la cosa, in quanto sostengono che firmando l’EULA (un contratto tra il fornitore e l’utente finale), gli agricoltori non possiedono i trattori ma ottengono solo un’abilitazione per utilizzarli. È solo in data 8 gennaio di quest’anno che quest’ultimi, dopo anni di lotta, sono riusciti ad ottenere dei risultati: facendo appello alla American Farm Bureau Federation per fare pressione su John Deere, si è arrivato a firmare un accordo di intenti in cui l’azienda si impegna a rendere i propri macchinari riparabili anche da officine di riparazione indipendenti.

Software proprietario e software libero

Il software che gira su queste macchine diventa poi uno strumento per limitare o eliminare la proprietà personale degli individui, in quanto, essendo proprietario (offuscato e di proprietà dell’azienda), non permette di apportare modifiche fai da te.

Per questo motivo, anche la Free Software Foundation si è interessata recentemente al diritto alla riparazione. L’introduzione di software proprietario all’interno di elettrodomestici ha infatti un prezzo: per quanti anni il produttore è disposto a fornire aggiornamenti di sicurezza? Se il software resta proprietario, diventa impossibile riparare i modelli più vecchi che non sono più supportati, obbligando le persone a comprare un nuovo dispositivo (cosa successa anche agli agricoltori sopracitati con i trattori).

Adottando invece software libero, la comunità può continuare a studiare e aggiornare il codice il più a lungo possibile, correggendo eventuali vulnerabilità, anche quando il fornitore non è più disposto a fornire aggiornamenti di sicurezza. Grazie a questo si può aumentare la sostenibilità e la vita media senza sacrificare la programmabilità e le funzionalità più innovative.

Le richieste del movimento per il diritto alla riparazione

Elencati i problemi principali, è necessario ora capire cosa tale movimento richiede. Prima di tutto, una progettazione ecosostenibile: i dispositivi dovrebbero essere progettati per essere riparabili, modificabili e potenziabili. Per esempio, tutti noi abbiamo dei telefoni in mano a cui molto probabilmente non si può cambiare facilmente la batteria o lo schermo. Non appena questi mostrano segni di deterioramento, siamo incentivati a cambiare dispositivo, al posto di sostituirli o farli sostituire.

Poi, l’eliminazione degli sbarramenti alla riparazione: spesso le aziende adottano scelte di design che rendono difficile o impossibile riparare i dispositivi. Per esempio, sostituendo un componente dell’iPhone, questo indica che ci sono parti “non genuine” e che potrebbero non funzionare correttamente. Ciò crea stress e diffidenza tra gli utenti nei confronti di chi ripara, spingendoli a comprare nuovi dispositivi e suggerendo che l’unica cosa sicura sia riacquistare l’intero telefono. Questa pratica rientra in quella più ampia della “associazione dei componenti” documentata da Right to Repair Europe. Ovvero quando un componente viene associato con un codice univoco al dispositivo in questione, in modo tale che a separare l’uno dall’altro il dispositivo si rifiuterà di funzionare correttamente (a meno che non sia il produttore stessso a riassociare il nuovo componente).


La terza richiesta è che la riparazione deve essere alla portata di chiunque: per avere una riparazione popolare, bisogna far sì che aggiustare un dispositivo non costi di più che comprarne uno nuovo. Molti di noi probabilmente si sono trovati nella situazione in cui, portare un telefono in assistenza è considerato troppo costoso rispetto all’acquisto di un nuovo dispositivo.

La spinta è in generale quella di creare un mercato competitivo della riparazione, con pezzi di ricambio di terze parti o di seconda mano, e con prezzi aventi un criterio (seguendo un indice apposito).

Al proposito, alcuni Stati membri dell’Unione Europea hanno sperimentato delle misure finanziarie come incentivo: Germania e Austria hanno provato un bonus di riparazione che prevede un rimborso del 50% fino a 100 euro quando si porta ad aggiustare un prodotto. La Francia invece ha lanciato un fondo di riparazione per alcuni dispositivi, ricavato dalle tasse pagate dai produttori. In ultimo, la Svezia ha proposto una detassazione sui servizi di riparazione.

L’ultima richiesta è che le persone devono essere informate: è fondamentale, in altre parole, essere in grado di sapere se il proprio dispositivo può essere riparato, come ripararlo, quanto costa e il tempo di vita previsto prima che diventi obsoleto.

La Francia ha per esempio imposto ai produttori di alcuni dispositivi elettronici, tra cui telefoni e portatili, di mostrare un indice di riparabilità, ispirato a quello usato dall’azienda di riparatori indipendenti iFixit. Tra i criteri stabiliti, c’è la disponibilità di documentazione tecnica, la facilità di smontaggio, il prezzo e la disponibilità dei pezzi di ricambio.

Le argomentazioni dei lobbisti antiriparazione

Generalmente la risposta da parte dei lobbisti è mista: da un lato viene accettata la necessità di una maggior trasparenza e di puntare a una progettazione ecosostenibile, tuttavia preferiscono una riparazione fatta dai produttori e non dai consumatori (come Digital Europe, gruppo di interesse di vari colossi tecnologici, che sostiene che i centri di riparazione sarebbero già stati ottimizzati per essere efficienti e per minimizzare l’impatto ecologico).

Uno degli argomenti usati per contrastare il diritto alla riparazione è quello della sicurezza delle persone, durante e dopo la riparazione di un prodotto. Ma se le aziende fossero davvero preoccupate dei pericoli che possono presentarsi durante la riparazione, questi dovrebbero essere noti in modo trasparente al pubblico. Ovvero dovrebbero fornire delle “istruzioni di sicurezza” per la riparazione, così che chiunque si cimenti sia consapevole dei rischi.

Le multinazionali raccontano anche di  presunti rischi di sicurezza informatica, che tuttavia non convincono gli esperti. Secondo questi, al giorno d’oggi, già senza diritto alla riparazione si riscontra un’epidemia di attacchi informatici che avvengono per cause complesse e perlopiù senza che gli attaccanti abbiano informazioni fornite dal produttore. In altre parole, il diritto alla riparazione non renderebbe i dispositivi che usiamo tutti i giorni meno sicuri di quanto non lo siano già.

Cosa fare

La cosa più importante è sicuramente spargere la voce: nonostante l’Unione Europea stia facendo passi avanti, questi non sono sufficienti. Senza una pressione dal basso c’è il rischio che la politica si stagni senza implementare un vero diritto alla riparazione. Come visto nell’esempio di Digital Europe, le multinazionali tecnologiche si impegnano attivamente nel lobbismo per salvaguardare i propri profitti, anche a discapito del pianeta: per questo è necessario un coinvolgimento di attivisti, collettivi e comunità per sostenere queste e altre politiche ambientali.

Il diritto alla riparazione è all’intersezione tra giustizia digitale e ambientale: unisce le classiche lotte per i programmi e la componentistica libere, con la necessità di un cambio di paradigma per affrontare la crisi climatica. E la riparazione comunitaria è una delle pratiche di cui abbiamo bisogno.

A proposito di questa, esistono organizzazioni locali chiamate repair café, “riparacaffè”. Nei quali, persone volontarie offrono aiuto e conoscenze per riparare oggetti guasti e sistemare malfunzionamenti, promuovendo la cultura del riuso e dell’economia circolare. Potete trovarne una mappa qui: https://www.restartersitalia.it/mappa-dei-restarters-e-dei-repair-cafe-italiani/

Infine, nonostante la maggior parte della responsabilità verta sulle aziende, è comunque opportuno ricordare che anche il singolo individuo può fare la sua piccola parte: comprare usato o ricondizionato è meglio che comprare nuovo. Se si vuole comunque optare per quest’ultima opzione, meglio finanziare le aziende come Fairphone, che vende cellulari e auricolari facili da smontare e riparare, costruiti tramite processi di produzione antisfruttamento e rispettosi dei diritti umani. O, se dovesse risultare troppo oneroso per le proprie tasche, si può optare per prodotti che hanno un voto di riparabilità alto: https://www.ifixit.com/Right-to-Repair/Repairable-Products

Per concludere con le parole della giornalista Rebecca Solnit, “per fare ciò che la crisi climatica ci chiede, dobbiamo trovare delle alternative di un futuro vivibile, di potere al popolo”. E cos’è il diritto alla riparazione se non un’alternativa per un futuro vivibile e che dà potere alle persone e alle comunità?