COVID-19: come la censura e le sanzioni stanno uccidendo gli iraniani

La mancanza di comunicazione, schiacciata da tutti i fronti, è un serio pericolo nella pandemia

Lo scorso novembre i rincari della benzina hanno portato gli iraniani in piazza a protestare: per sedare la rivolta l’Iran riuscì a staccare il 95% di internet per alcuni giorni. Nel 2009 invece, a causa delle proteste nate dopo le presidenziali, fu tagliato l’accesso a siti come Twitter e Facebook, ancora oggi inaccessibili.

La censura in stati autoritari come l’Iran è di casa, tanto che nel 2011 fu avanzata per la prima volta la rete intranet Halal Net – ovvero un internet locale, in questo caso controllato dal governo. Internet viene infatti considerato uno strumento troppo prezioso per farne a meno, dacché alcuni stati come l’Iran, la Russia, la Corea del Nord e la Cina hanno puntato a tamponare il problema creando una rete tutta loro (in Corea del Nord e in Cina sono già attive e prendono il nome rispettivamente di Kwangmyong e Grande Muraglia Digitale). Ad aggiungersi a ciò si ha un quadro geopolitico fatto di sanzioni nei confronti dell’Iran da parte degli Stati Uniti, interrotte nel 2015 ma ripristinate nel 2018 quando il presidente americano Trump aveva sostenuto di avere le prove – mai dimostrate – che l’Iran avesse violato l’accordo sul nucleare.

L’arrivo del COVID-19 in un paese in simili condizioni non ha portato nulla di buono: partendo dalle sanzioni, una cosa che noi diamo per scontata come la mappa dei contagi della Johns Hopkins che appare ogni giorno sui notiziari e che è accessibile da chiunque per vedere qual è la situazione globale, non è invece accessibile nel paese; questo perché la mappa è sviluppata da Esri, una compagnia californiana che, a causa delle sanzioni, viene bloccata automaticamente in Iran. Il presidente del National Iranian American Council, Jamal Abdi, descrive le sanzioni come pressanti, accusandole di limitare da anni l’approvvigionamento alle risorse sanitarie (risorse che oggi servono più che mai). Questi comportamenti, continua, non hanno portato la gente a chinare la testa, bensì hanno portato il governo iraniano a esercitare maggiore repressione, paranoia e sotterfugi per spingere la linea dura.

Così facendo, la narrazione dello stato come forte e indipendente porta a minimizzare i problemi interni, e a silenziarli quando possibile. È questo infatti quello che è successo con i contagi del COVID-19, con un approccio simile al dottore Li Wenliang di Wuhan, che fu ammonito per diffondere il falso (che non esisteva un nuovo virus) finché non fu più possibile trattenere la notizia.

Stando a un medico informatore, il 22 febbraio le forze armate dell’Islamic Revolutionary Guards Corp hanno proibito a dei medici iraniani di diffondere i dati riguardo il virus, minacciandoli. Nel frattempo il governo aveva istituito una centrale di disinformazione che ha portato a decine di arresti, mentre il Ministro della Salute Iraj Harichi dichiarava che la quarantena è una misura da età della pietra – quest’ultimo è risultato positivo il giorno dopo. La disinformazione effettivamente non si è fatta mancare, ma è difficile comprendere in un governo autoritario quanto il concetto di disinformazione sia stabile o, al contrario, venga piegato da chi sta al potere per silenziare opinioni scomode.

Un esempio pratico lo si trova nella notte a cavallo tra il 2 e il 3 marzo. Nella città di Qom, origine del focolaio, era morto da poco uno dei consiglieri personali dell’ayatollah Khamenei – la guida religiosa dell’Iran. Per sedare eventuali proteste e contatti con l’esterno, la versione di Wikipedia in lingua farsi non è risultata accessibile da computer per 24 ore (si ipotizza una svista per non aver bloccato anche quella via telefono), mentre svariati operatori telefonici sono stati disconnessi per circa un’ora nella notte. Al sorgere del sole l’ayatollah Khamenei ha poi tranquillizzato la popolazione, dicendo che il nuovo coronavirus non è “questo gran problema” e invitando i cittadini alla preghiera in quanto “pregare può risolvere molti problemi”.

Sempre nella stessa giornata, i telefoni degli iraniani sono stati raggiunti da una notifica che li invitava a scaricare un’app per illustrare le probabilità di aver contratto il COVID-19. L’app pone domande sulla vita della persona per capire, per esempio, con quanta gente è entrata in contatto di recente. Tuttavia, Nariman Gharib, un ricercatore di sicurezza iracheno residente a Londra, ha analizzato l’app e ha scoperto che tra i suoi componenti ce n’è uno per monitorare la posizione GPS. Questo componente – il termine tecnico è “libreria” – è lo stesso che viene usato dalle applicazioni di fitness per capire esattamente di quanto ci si sta muovendo. Il sospetto è quindi che questi dati – il sondaggio e gli spostamenti – vengano collezionati dal governo per stringere ulteriormente la presa al comando. A calcare l’ipotesi ci pensa la casa produttrice dell’applicazione: la Sarzamin Housmand, precedentemente Smart Land Strategy, nonché colei che nel 2018 creò una versione filogovernativa dell’app di messaggistica Telegram, dopo che l’Iran bandì l’uso di quella ufficiale. Nel frattempo Google ha rimosso l’app, chiamata AC19, dal Play Store con l’accusa di spionaggio e tracciamento dei dissidenti, come fece con i cloni di Telegram al tempo.

Per quanto riguarda invece la comunicazione dei dati, sono molteplici le fonti e le stime che sostengono che l’Iran stia comunicando dati notevolmente più bassi dei reali. Sui social network si vedono infatti reportage di locali con sacchi di cadaveri negli ospedali, persone avvolte in tute anticontagio che seppelliscono bare e, da satellite, cimiteri inutilizzati fino ad ottobre dell’anno scorso che hanno iniziato a riempirsi tutto d’un colpo. Il futuro infine non prospetta nulla di buono, in quanto il 21 marzo prenderà piede il Nowrūz, la festa nazionale che in Iran viene considerata importante tanto quanto il Natale da noi. Un utente su Reddit la descrive come un insieme di baci, abbracci, visite e stuzzichini, spiegando che la nonna media iraniana si metterà a piangere se dovessero vietarle ciò, iniziando a farsi compatire dagli altri che, essendo un popolo di fatalisti, avrebbero non pochi problemi morali nel decidere se assecondarla o meno.

La situazione in Iran è, insomma, allarmante. Per quanto il paese abbia proposto misure come 100GB di internet gratuito e abbia disposto soldati per le strade, i cittadini rimangono tagliati fuori dal mondo, pressati esternamente dalle sanzioni americane e internamente da un governo che non vuole allentare la presa. Bisognerebbe tuttavia ricordare ad entrambe le parti che il COVID-19 non prende posizioni di partito e non danneggia solo i più deboli; che questi giochi di potere in una condizione simile sono come un boomerang, che può tornare in faccia a tutti quanti. E che rendere le persone consapevoli di quello che succede è il primo passo per capire come muoversi efficacemente.

Foto in anteprima: Motjaba Mosayebzadeh su Unsplash


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