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EARN IT: come l’America cerca di controllare (ulteriormente) la rete

Mentre il mondo è preso dall’emergenza pandemica del COVID-19, il Senato degli Stati Uniti ha proposto una legge chiamata EARN IT. Di seguito vi proponiamo la traduzione di un post breve ed esplicativo a riguardo, per comprendere di cosa si tratta.

Post originale di The Sharp Ninja, ingegnere informatico su Medium: EARN IT Must Not Happen

EARN IT non deve succedere

“La privacy non è un privilegio, è un diritto.

Ho appena letto un documento davvero ben scritto e pensato riguardo EARN IT. Cos’è EARN IT? È una nuova legislazione introdotta dal Senato USA che rimuoverebbe le protezioni ai fornitori di servizi garantita dalla Sezione 230 (quella che li assolve da responsabilità per i comportamenti dei loro utenti) se non implementano una metodologia per scansionare ogni messaggio inviato nella loro piattaforma in caso di pedopornografia.

La Sezione 230 è la ragione per la quale servizi come Facebook, Discord e Telegram possono esistere. Senza di essa, diventerebbero responsabili ogni volta che un utente fa qualcosa di illegale. Se tale protezione dovesse sparire, allora questi servizi non sarebbero semplicemente più in grado di funzionare, venendo costretti a chiudere. Di conseguenza faranno tutto ciò che è in loro potere pur di rientrare nelle protezioni della 230.

Attualmente, la crittografia end-to-end non permette ai servizi di rientrare negli obblighi imposti dalla EARN IT perché non è possibile individuare contenuti pedopornografici in messaggi crittografati. Servizi come WhatsApp e Telegram usano la crittografia end-to-end per proteggere le conversazioni dei loro utenti da occhi indiscreti, come il governo cinese e gli ayatollah iraniani (Telegram è badito in Iran proprio per questo motivo). Per rientrare nell’EARN IT – e quindi nella Sezione 230 – questi servizi dovrebbero far cadere la crittografia per permettere la scansione di ogni messaggio. Il non farlo li porterebbe infatti a immense responsabilità che li manderebbe in bancarotta in men che si dica.

Quindi cos’è l’EARN IT se non un tentativo per forzare i fornitori di servizi ad abbandonare la crittografia end-to-end? Niente.”

Per contrastare ciò, la Electronic Frontier Foundation (EFF) ha innalzato una pagina per aiutare i cittadini americani a trovare i loro rappresentanti e contattarli per manifestare dissenso verso la proposta di legge. La EFF ha anche dedicato un articolo (in inglese) riguardo la proposta.

Immagine in anteprima: EFF

Alternative digitali ai tempi del COVID-19

L’articolo è stato realizzato in collaborazione con LeAlternative, un progetto italiano di divulgazione di strumenti che rispettino la privacy delle persone

Questo articolo è scritto in piena emergenza coronavirus COVID-19 in Italia e nasce per un’esigenza che ci sta particolarmente a cuore. L’emergenza sanitaria ha infatti bloccato la maggior parte degli incontri e degli spostamenti privilegiando le videoconferenze, le videochiamate e lo smart working. Quali alternative ai tempi del COVID-19? Esistono alternative a Skype, a Microsoft Teams, a Google Classroom oppure a Google Hangouts Meet? Perché purtroppo per molte realtà, anche pubbliche, sono infiniti gli esempi dove si è preferito utilizzare Skype al posto di alternative open source. Anche per le scuole.

Non siamo ovviamente contrari né allo smart working né alle videoconferenze. Ha però davvero poco senso questa pubblicità gratuita ed immotivata ad una società privata come Microsoft e a Skype, che ha adottato posizioni moralmente discutibili nel corso degli anni. Si prenda per esempio la delocalizzazione delle analisi delle conversazioni di Skype in paesi come la Cina, paese che filtra ogni contenuto internet, avvenuta l’anno scorso; con tra l’altro misure di sicurezza non all’altezza dello standard. O le posizioni prese dalla Microsoft per la costruzione di uno Skype cinese personalizzato già dal lontano 2006, che aderisse alla censura del governo cinese pur di potersi espandere. E come possiamo lasciare le lezioni degli alunni a servizi come Google Classroom, la compagnia per eccellenza che ha fatto del surplus comportamentale (ovvero il raccogliere più dati di quelli che gli servono effettivamente) la sua prima fonte di guadagno? Siamo esseri sociali, e vedere come stiamo rimanendo in piedi aiutandoci l’un l’altro nonostante l’isolamento è una cosa bellissima: lezioni e corsi gratuiti, video divulgativi, challenge di disegno, elenchi di cose da fare per tenersi impegnati, comunità che nascono, live di calligrafia, università attive. Questo e tanto altro sta succedendo in Italia, e sarebbe un peccato permettere a compagnie ispirate dal solo guadagno a spesa delle nostre abitudini, dello spazio privato, di approfittarsi di tutto ciò.

Per tutti: alternative a Skype e lezioni live sui social

Jitsi

Jitsi è un’ottima alternativa gratuita per chat, chiamate di gruppo, videochiamate e videoconferenze e la sua peculiarità è che, oltre all’app ufficiale per telefono, è lanciabile persino da browser dal suo sito ufficiale! Se optaste per questa opzione, vi ricordiamo sempre di usare browser incentrati sulla privacy come Firefox piuttosto che Chrome (qui è spiegato come impostare Firefox al meglio). Inoltre, per chi vuole avere il programma nelle proprie mani e non affidarsi al loro server, essendo open source, se avete le capacità necessarie potete hostarlo direttamente da casa vostra. Jitsi è anche crittografato end-to-end per una maggiore sicurezza ed è disponibile sia ufficialmente per Android (anche F-Droid) e iOS, sia per Windows, Linux e Mac grazie alla sua community. Vi linkiamo una semplice guida passo passo della docente di matematica e fisica Laura Tonelli che ci spiega come funziona. Qui invece una guida scritta, se preferite.

Jami

Jami è un’alternativa multi-piattaforma perfetta per sostituire Skype. È disponibile per Windows, Linux, Mac, iOS e Android. Con Jami è possibile inviare messaggi, effettuare chiamate e videochiamate, condividere il proprio schermo e fare delle videoconferenze di gruppo. È gratuito, sicuro (con crittografia end-to-end) ed open source! Inoltre, caratteristica importante per la propria privacy, non ha un server proprietario ma è completamente peer-to-peer.​​​​​​​

Insegnamento: alternative a Microsoft Teams e Google Classroom

BigBlueButton

BigBlueButton è un’applicazione open source da installare su un server ed è un’alternativa professionale per le lezioni online a costi irrisori (a carico dell’istituzione, gli studenti non pagano). Dispone di decine di funzionalità: condivisione schermo, chat, videochiamate, videoconferenze, lavagne condivise, stanze separate per lavori in gruppo e altre. Il tutto con un supporto commerciale di molteplici aziende. Essendo poi in HTML5 non è necessario installare app per utilizzarlo, basterà semplicemente il vostro browser. Secondo alcuni test ha funzionato alla grande. Speriamo di vederlo prima o poi in versione “one-click” utilizzabile per tutti facilmente, invitando nel frattempo le istituzioni scolastiche a prenderlo in considerazione per il rispetto del proprio corpo scolastico e degli studenti.

Jitsi

Il già citato Jitsi può essere utilizzato, seppur con meno funzioni rispetto al precedente, come strumento per videolezioni.

Altre alternative ai tempi del COVID-19

Signal

Alcune aziende fanno affidamento ai gruppi su Whatsapp per parlare di lavoro. Come abbiamo già visto questo è un male sotto molti punti di vista. Convincete i colleghi (ed il capo) ad usare Signal, per garantire che nessun’azienda usi le vostre abitudini (lavorative, ma anche private) per fare ancora più soldi. Signal protegge lo smart working e la propria privacy, ed è disponibile su Android, iOS, Linux, Windows e Mac. Per chi non vuole passare per gli store, l’apk può essere inoltre scaricata dal sito ufficiale.

PeerTube

Se volete caricare video a libero accesso, tipo dei tutorial, vi consigliamo PeerTube. PeerTube è simile a YouTube, ma evita che i dati finiscano in mano a Google. Ognuno può tirare su la propria versione di PeerTube, come l’istanza italiana di Peertube.uno dove potete appunto registrarvi per caricare i vostri video. Sottolineiamo che l’intento di PeerTube NON è monetizzare, e nel caso voleste farlo, potete usare siti esterni per donazioni come ad esempio Patreon o Liberapay.

CryptPad

Se invece volete condividere documenti stile Google Drive, potete farlo grazie a CryptPad. Essendo un sito Zero Knowledge, al contrario di Google il server non può sapere cosa scrivete nei file che create, che siano fogli di testo, tabelle di calcolo o presentazioni. Per registrarvi basta un nickname e una password (quindi conservatela per bene, perché non potete recuperarla!), potete scegliere con chi condividere i vari file, organizzarvi lo spazio in cartelle e supporta il lavoro in contemporanea. CryptPad è open source e dispone sia di una versione gratuita che una versione a pagamento più ampia, con più spazio a disposizione. Se vi interessa abbiamo scritto una guida in merito con altri siti simili a confronto qui.


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Xinjiang e Tibet: del digitale e di prigioni

Attenzione: questo articolo è il secondo di una serie di 2, sull’utilizzo della tecnologia in Cina. Qui la prima parte

Ritornando a 1984 di George Orwell, quando si parla di questo romanzo si immagina subito una distopia dove la tecnologia è usata per soggiogare le persone. Quello però che alcuni non realizzano è che il succo del romanzo non è la tecnologia, bensì il totalitarismo; i regimi che imponevano la loro verità con la forza e la paura, fossero essi il comunismo sovietico dei gulag o la Stasi della Germania di Hitler. Politiche che tramite la tecnologia – strumento neutrale – non potevano che peggiorare.
Nell’articolo precedente abbiamo parlato della situazione attuale in Cina, che abbiamo dimostrato essere appunto un regime: l’errore che si può fare è pensare che questi comportamenti siano fenomeni degli ultimi anni, di un “qualcosa” andato storto; ed è per questo che, se vogliamo parlare di Xinjiang e Tibet – le due regioni più soggette a questa tortura tecnologica –, c’è bisogno di partire dal principio.

Tuffo nel passato

Lo Xinjiang è una regione situata nel nord ovest della Cina e sede della minoranza etnica degli uiguri, popolo musulmano che viene dal khanato turco e che fondò in seguito un khanato tutto suo (744-840). Nel corso della loro storia furono a tratti alleati e nemici della dinastia cinese Tang, passando poi sotto Gengis Khan e infine sotto la dinastia cinese Qing (1760), dove il loro territorio fu annesso alla Cina e prese appunto il nome di Xinjiang. Seguirono ulteriori rivolte nel 1876, 1933 e 1944, che lo resero a tratti uno stato a sé stante, almeno fino a quando, con l’unificazione della Cina di Mao e la Rivoluzione Culturale cinese, non venne riassorbito come regione autonoma – dichiarata ufficialmente nel 1955. Qui furono infine istituiti i bingtuan, organizzazioni paramilitari dove le truppe cinesi demilitarizzate ricevevano (e tuttora ricevono) vantaggi al diventare contadini.

La storia conosciuta del Tibet inizia invece nel 620 con l’imperatore Songsten Gampo. Dopo scontri con i già citati uiguri e Tang, raggiunse l’apice nel 780, per poi decadere e frammentarsi, diventando anch’esso territorio mongolo (1240). Tra vari passaggi del testimone, anche il Tibet passò sotto la dinastia Qing (1720), finché nel 1910 l’ufficiale Zhao Erfeng non depose il Dalai Lama, massima autorità religiosa e politica. Subito dopo la Cina si scusò ritirando le sue truppe, e il Tibet dichiarò l’indipendenza finché, anche qui, non arrivò la Rivoluzione Culturale dove la Cina affermò la sua sovranità e offrì l’autonomia alla regione (rifiutata dal Dalai Lama). Nel 1958 le due contestate regioni di Kham e Amdo passarono definitivamente sotto la Cina, seguite dall’arresto di 2000 monaci e l’imposizione dell’ideologia cinese che portò nel 1959 alla ribellione del Tibet – soprattutto nella capitale Lhasa – e al conseguente ritiro dell’offerta di autonomia. Nello stesso anno il Dalai Lama si rifugiò in India, dando vita da allora a migliaia di migrazioni di monaci l’anno.

La situazione di queste due regioni oggi è notevolmente cambiata, ed è facile cadere trappola di narrazioni romanzate, distorte o demonificate. Tuttavia, se si guarda a fondo, si noterà che il minimo comune denominatore tra le due è quello spirito da Rivoluzione Culturale, e che quello che sta succedendo “ora” non è che la medesima cosa supportata da una migliore tecnologia.

Campi di concentramento ieri e oggi

Attualmente nello Xinjiang è nota la presenza di campi “di rieducazione”, più simili a campi di concentramento, dove chi non concorda con l’ideologia del Partito viene appunto rieducato. Questi campi non sono altro che la nuova versione dei laojiao, campi di rieducazione tramite il lavoro creati nel 1949 e ispirati ai gulag sovietici, per i piccoli crimini e per chi non condivide le stesse ideologie dello Stato. Sulla carta i laojiao hanno cessato di esistere nel 2013, ma nella pratica hanno solo cambiato nome (come i loro fratelli laogai per i criminali nel 1994, che han preso il nome di prigioni). Nonostante la Cina affermi che le persone entrino di loro spontanea volontà in campi simili, video di persone legate in ginocchio e bendate come se stessero per essere deportate mostrano una narrativa differente. Le dichiarazioni di persone fuggite da certe realtà lasciano inoltre poco all’immaginazione, come questa insegnante che afferma di come le donne venissero stuprate dalle guardie davanti agli altri prigionieri, costretti a guardare mentre sia loro che la donna dovevano rimanere in silenzio; o di stanze di tortura, di come debbano dormire tutti immobili sullo stesso fianco, e di come i musulmani siano costretti a mangiare maiale. Il tutto condito con inni di propaganda dalla mattina alla sera.
Storie simili vengono anche dal Tibet, dove nel 2005 una suora tibetana fuggita attraverso l’India affermava di essere stata stuprata e messa in campi di lavoro per via di venerare il Dalai Lama. Tuttavia, non si vuole paragonare questi ai campi di sterminio dell’olocausto, o almeno non a livello fisico. L’eliminazione della persona in questo caso – per quanto molte siano sparite nel nulla – sembra più da Ministero dell’Amore di Orwell, dove a morire è l’essenza della persona in un indottrinamento violento ed estenuante.

Andando a ritroso, già nel 1992 Amnesty International denunciava le condizioni disumane con torture annesse dei campi di lavoro in Tibet, ritrovandoci quindi davanti a una situazione che non è recente, ma semplicemente ignorata. Oggi, anzi, denunciare e indagare è diventato quasi impossibile: dal 2016 le ONG devono venire approvate dal governo, chiunque provi a parlare male della Cina viene bandito (dal New York Times nel 2012 allo show Last Week Tonight di John Oliver nel 2018) e in Tibet l’accesso a giornalisti e attivisti stranieri è vietato dal 2008 a meno che non siano approvati dall’Ufficio degli Affari Esteri cinese; tanto che l’ultimo documentario non cinese sulla vita dei religiosi locali risale a quell’anno, ed è stato girato di nascosto.

Se dovessimo trovare un punto per l’escalation, si dovrebbe partire proprio dal 10 marzo di quel 2008, dove, dopo anni di pressioni, violenze e imposizioni culturali che hanno giocato a stremare fisicamente e mentalmente i “non-cinesi”, sono iniziate le rivolte. Era il 49esimo anniversario dall’annessione del Tibet, e nella sua capitale Lhasa si riversarono migliaia di persone iniziando a distruggere e colpire tutti i non tibetani – stranieri esclusi – e le loro attività. Sedate le rivolte, la Cina rispose con un ispessimento dei controlli e delle frontiere (per chi voleva fuggire in India), blocco della rete internet e provvedimenti che ricalcarono la legge marziale.
Una cosa simile accade nello Xinjiang del 2009 con le rivolte nella sua capitale Urumqi dal 5 al 7 luglio, in seguito agli scontri nel Guangdong che provocarono due morti uiguri. Iniziata come manifestazione pacifica in cerca di risposte, è terminata poi nella violenza, con persone incarcerate, fatte sparire e sei condanne a morte. Nella regione la tensione era già palpabile da anni, solitamente a suon di accoltellamenti e bombe da parte di alcuni uiguri.

Questi due avvenimenti hanno offerto un ottimo pretesto alla Cina per usare ancora di più il pugno di ferro nel corso degli anni, isolando queste realtà dal mondo e bollandole come separatiste e/o terroriste. Dal 2017 per esempio, le barbe troppo lunghe e i veli sono proibiti nello Xinjiang tanto quanto chiamare il proprio figlio Muhammad o Medina. Il Dalai Lama invece è considerato una figura politica separatista e farsi trovare con dei suoi scritti equivale al carcere. Per avere un’idea migliore del concetto di libertà attuale, nell’ultima classifica stilata da Freedom House (2019), quella del Tibet è di 1 su 100, seconda solo al 0/100 della Siria e superata persino dalla Corea del Nord (4/100). Quella cinese 11/100, al pari della Striscia di Gaza.
Di particolare rilievo è infine la figura di Chen Quanguo, ex soldato e attuale segretario del Partito. Il suo maggior contributo è stato l’innovare la polizia prima nel Tibet – dove ha operato dal 2011 al 2016 – e poi nello Xinjiang – dal 2016 a ora. Il sistema di Chen Quanguo è stato creare delle stazioni di polizia “di comodità” in queste due regioni e suddividere l’amministrazione a griglie. Così facendo, la sorveglianza fisica è gestita ogni 500 metri da uno stand della polizia, supportata a sua volta da telecamere e da quei poliziotti che, dal 2011 al 2016, hanno visto i reclutamenti più che quadruplicarsi rispetto ai cinque anni precedenti.

Tecnologia per sopprimere

Individuato il quadro storico e i minimi comuni denominatori, vediamo ora come la tecnologia sia stata adattata alla situazione.

Partiamo dalla città di Kashgar, nello Xinjiang. Grazie a un report sul campo di BuzzFeedNews, veniamo a sapere di come la sorveglianza digitale sia a livelli sconcertanti: durante l’attesa in uno dei tanti posti di blocco sparsi per la regione, la giornalista viene messa in una fila separata dagli uiguri. Questi vengono infatti sottoposti a scansione facciale per verificare la loro identità, cosa che a lei non accade. Descrive poi le telecamere come “onnipresenti” e persino per fare benzina è richiesta una scansione del volto. Non mancano poi i già citati campi di concentramento, qui definiti “centri di educazione politica”, che un tempo erano scuole, dove a detta di un locale le persone scompaiono. La città infine funziona da “palestra digitale” per le aziende tecnologiche che vogliono testare nuovi prodotti, come la compagnia pechinese Wanlihong e la sua scansione degli iridi; un aspetto, quello della palestra, che in verità si riscontra in tutto lo Xinjiang. Spostandoci infatti nella città di Tumshuq, le minoranze etniche musulmane sono soggetto di studio (forzato) di fenotipizzazione del DNA. In poche parole, analizzando il DNA, si tenta di ricostruire la faccia di un individuo. E risulta che tra l’altro l’Europa stia finanziando, consapevolmente o meno, questa ricerca.

Tornando ai posti di blocco, per monitorare meglio gli spostamenti di queste minoranze, è del 2017 la notizia dell’installazione forzata dell’app Jingwang ai residenti: Jingwang ha il compito di spiare il contenuto dei telefoni (in gergo tecnico spyware), che vengono poi appunto esaminati ai posti di blocco. Sempre del 2017 è l’obbligo di avere un tracciante GPS installato nelle macchine di queste persone, collegato a un satellite cinese. Infine, come se non bastasse, codici QR troneggiano di fianco alle porte d’ingresso delle abitazioni uigure, contenendo informazioni personali sui suoi residenti che la polizia controlla regolarmente. Anzi, ricordate il discorso di come un coltello possa essere usato sia in maniera utile che in maniera dannosa? A quanto pare lo sanno anche i cinesi, dato che per prevenire hanno applicato un QR anche su quelli, per associarli ai proprietari (sono noti casi di accoltellamenti di rivolta come quelli del 2013 a Lukqun, forse in risposta all’omicidio di un bambino uiguro a colpi di machete a Piqan).

Spostandoci in Tibet le notizie sono più scarne a causa dell’ostacolo ai giornalisti, tuttavia sono noti casi di censura tramite l’app di messaggistica cinese WeChat: uno studio ha infatti rivelato come messaggi contenenti termini riguardanti una festività buddhista non venissero recapitati. Un tibetano, poi, è stato arrestato proprio per aver creato un gruppo sul Dalai Lama sulla medesima app. Anche il numero dei monaci che emigrano è andato a calare a causa della sorveglianza ancora più dura iniziata dopo la rivolta di Lhasa e intensificata dopo le limitazioni sui passaporti del 2012, dando via al fenomeno dell’autoimmolazione come forma di protesta che ha causato ad oggi 156 vittime. Inoltre, per disincentivare ulteriormente dal rifugiarsi in altri stati, da fine 2018 sono stati dispiegati droni militari a proteggere i confini sia di Tibet che dello Xinjiang, dotati di radar e con la capacità di carico di 12 missili l’uno.

Vie della seta

Nel 2014 il People’s Daily, il più diffuso quotidiano cinese, pubblicava un articolo riguardo il pensiero del presidente Xi Jingping sullo Xinjiang: i punti di partenza e di arrivo sono la promozione dell’equità sociale e della giustizia, e il miglioramento del benessere delle persone”, ripreso qualche riga dopo in “realizzare il sogno cinese e dare maggiori contributi”. Risulta evidente come queste affermazioni non rispecchino la situazione attuale, sempre ovviamente se il sogno cinese non sia fare sparire lentamente etnie che non siano la Han (ovvero quella cinese più diffusa) e la promozione della giustizia quella di non fare esistere voci discordanti. Tuttavia è lecito ipotizzare un altro motivo per giustificare queste parole: la One Belt One Road, ovvero la nuova Via della Seta.

In un post del 2015 dell’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua, ora non più reperibile se non grazie a una copia, lo Xinjiang veniva definita una regione essenziale per la nuova Via della Seta. La regione, che possiede ¼ dei confini terrestri cinesi, per l’esattezza quelli che affacciano di più verso l’Europa, “si impegnerebbe a diventare un centro di comunicazioni, commercio, cultura, finanza e di cure mediche lungo la Via”. In altre parole, la regione ha un ampio interesse geopolitico, ed è necessario che rimanga in ordine per continuare il progetto espansionistico della Cina. Considerate le condizioni attuali, un maggiore ordine è probabilmente ottenibile solo tramite una maggiore repressione.

Parlando di nuove Vie della Seta, l’Italia è stata il primo e unico paese G7 ad entrare nel tal progetto, il 23 marzo 2019. Il firmatario nonché Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio ha affermato che con la Cina “questo rapporto vogliamo rafforzarlo e uno dei percorsi per farlo è sicuramente la Belt and Road Initiative. Un progetto di sviluppo di cui noi vogliamo essere protagonisti”. Nella stessa giornata sono stati inoltre firmati molteplici contratti di collaborazione per un totale di 2.5 miliardi di euro: tra i nomi troviamo Intesa San Paolo, ENI e Ferrovie dello Stato.

Conclusioni e riflessioni

Non pensiamo ci sia davvero molto da aggiungere sulla Cina: dati i suoi livelli di sorveglianza, se tenete alla vostra privacy vi possiamo solo consigliare di stare alla larga da qualsiasi prodotto tecnologico delle loro compagnie (e da Skype), sia esso un’app come WeChat o TikTok, o un telefono come Huawei o Xiaomi. E questo a prescindere dal fatto che ci siano prove o meno su quel determinato prodotto, in quanto è il contesto in sé a essere compromesso. Poi, beh, “votate col vostro portafoglio” direbbe qualche utente sulla rete, anche se trovare qualcosa che non sia Made in China è ormai un’impresa e che gli sweatshop cinesi come quelli di Prato che sono teoricamente Made in Italy sono una realtà. Oppure ancora incazzatevi, parlatene, ritrovatevi, protestate, approfondite, contattate organizzazioni che si impegnano da anni sul tema come Amnesty International e Human Rights Watch; oppure no, per carità: quello che vi sentite. Tuttavia, se c’è una cosa alla quale proprio vorremmo invitarvi, è quella di restare umani. Non lasciate che certe storie siano l’ennesima foto del bimbo morto su qualche costa in grado di smuovere per qualche minuto il vostro disgusto, per poi scordarsene dopo una settimana. Perché alla fine anche in questa storia abbiamo foto di morti, come ce n’erano già nel 1989, ma non si dovrebbe arrivare a un cadavere con la testa esplosa da un fucile per motivare. Il cadavere dovrebbe far piangere.

Per quanto riguarda l’Italia invece, si sembra tristemente non venir meno a quell’idea di popolino che venderebbe pure la propria madre pur di sentirsi importante. Mentre il resto dell’Europa lavora a una Via della Seta alternativa con Australia e Giappone, noi abbiamo barattato la crescita con l’umanità. Paradossale assoggettarsi a certi Paesi e ai suoi campi di tortura, quando poi si urla “mai più” durante la Giornata della Memoria e si prendono le difese della Senatrice Liliana Segre. I musulmani, i tibetani e i cittadini cinesi stessi sono di serie B? La tortura di milioni di persone è giustificata se abbiamo un guadagno? Perché in mesi di proteste a Hong Kong, per esempio, non abbiamo sentito accenni a niente di tutto ciò provenire dai mezzi d’informazione, eppure va avanti da decenni.

C’è, infine, chi potrebbe ritenere questo articolo politico: tuttavia, se prendere le difese degli abitanti di un’intera nazione – perché si ricorda che, per quanto la situazione nello Xinjiang e Tibet sia più grave, neanche i normali cinesi possono vivere una vita normale – da strumenti di sorveglianza, propaganda e tortura è politico, e non invece umano, forse qualcosa è andato storto dentro di noi. E che forse, è il momento di smettere di alienarsi.


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Chi guarda i cinesi? Il Partito

Questo articolo è il primo di una serie di 2. In questa occasione si vuole dare un quadro generale dell’utilizzo della tecnologia in Cina, trattando poi di due casi specifici – quelli della minoranza musulmana degli uiguri e del Tibet – nel secondo.

La tecnologia è uno strumento, né giusta né sbagliata. Come con un coltello possiamo decidere se affettare del pane o accoltellare qualcuno, con la tecnologia possiamo decidere se creare strumenti che aiutino le persone o strumenti che facciano loro del male. In questo caso, a ripresa di un precedente articolo sulla quasi necessità di sentirsi rassicurati dalle telecamere, parleremo di come l’accentramento di potere (un regime totalitario) misto a milioni di telecamere e un notevole progresso tecnologico abbiano tramutato il barlume di libertà già fioco di un’intera nazione, la Cina, in un lontano ricordo. Attenzione: non si sta insinuando che prima dell’avvento delle telecamere la Cina fosse un paese libero e democratico, basti guardare al 1978 per le politiche del figlio unico che portò le donne alla sterilizzazione forzata e allo sterminio delle figlie femmine (con conseguente tratta di “spose schiave” dai paesi del sud-est asiatico). Né si vuole insinuare che il resto del mondo sia rosa e fiori. Quello che si vuole affermare è, invece, come certi strumenti (telecamere, telefoni, internet) stiano venendo usati per aggravare la situazione, in una mania del controllo al quale lo stato cinese non vuole venire meno. E che no, la situazione negli Stati Uniti non è comparabile a quella cinese.

Telecamere

La nostra storia inizia nel 2005 con il progetto Skynet. Skynet aveva l’obiettivo di riempire di telecamere tutte le aree urbane e industriali entro il 2020. La copertura della capitale Pechino fu per esempio ultimata nel 2015, per un totale nel 2017 di 176 milioni di telecamere sparse nella nazione, ovvero una ogni 8 persone. CCTV, un’emittente cinese, faceva notare all’epoca come 20 milioni di quei 176 fossero in grado di riconoscere veicoli e distinguere l’età, il sesso e l’abbigliamento dei passanti in tempo reale, tramite un’intelligenza artificiale. Queste funzioni venivano impiegate – e tuttora vengono impiegate – per esempio per multare chi non attraversa sulle strisce, senza risparmiare loro un’umiliazione pubblica sui grandi schermi della città per accentuare il senso di vergogna. Intelligenze artificiali, chiariamo, non proprio ottimizzate, in quanto non sono mancati casi dove persone ritratte nelle pubblicità sulle fiancate dei bus siano state scambiate per pedoni.

Nel frattempo gli anni passano e la tecnologia avanza, dacché a settembre 2019 viene annunciata in Cina una telecamera da 500 megapixel in grado con un singolo scatto di applicare il riconoscimento facciale a decine di migliaia di persone in uno stadio. Per identificare le persone, sia in questo caso che in quello dei pedoni, è necessario dall’altra parte qualcosa con cui fare il confronto (come sappiamo che ad attraversare è stato Tizio piuttosto che Caio?). Ovvero, per fare quello che fanno, queste telecamere devono essere connesse a un database contenente i volti di tutti i cittadini. Ad agevolare inoltre il controllo, misure che richiedono o eseguono il riconoscimento facciale stanno prendendo sempre più piede, come all’entrata del parco naturale di Hangzhou, o quando si vuole un nuovo piano di telefonia mobile.

Tornando a Skynet, nel 2018 si decise di convergerlo nel progetto Sharp Eyes. Quest’ultimo, nato nel 2011, si rifà al detto maoista “people have sharp eyes” (la gente ha una buona vista), incoraggiando gli abitanti delle campagne a sorvegliare i propri concittadini per ridurre le spese sulla sicurezza. Se prima Sharp Eyes era spionaggio vecchio stile, con l’ibridazione di Skynet è diventato digitale: ora le persone possono infatti connettersi alle telecamere dei loro paesini dalle loro TV e dai loro telefoni, per contribuire a un miglior monitoraggio e segnalare i sospetti. Di particolare rilevanza è ciò che succede nella città di Linyi, nella provincia dello Shandong, dove ogni giorno a mezzogiorno degli altoparlanti trasmettono un messaggio per spronare gli abitanti a partecipare nella denuncia dei crimini. Per raffozare l’idea, sono stati stampati 40 milioni di volantini anticrimine, 25.000 poster e diverse pubblicità sparse tra mezzi pubblici e grandi schermi. Solo a Linyi nel 2018 si contavano 360.000 telecamere, per un totale di quasi 3 milioni nella provincia dello Shandong.

Il quadro dunque è quello di una propaganda volta a esasperare il concetto di “sicurezza” e di “giustizia”, dove monitorare è preventivo e dove lo stato è quasi una figura paterna che salva dal male; come ha dichiarato infatti Wang Yujun, segretario municipale del Partito Comunista di Linyi: “Per rimuovere il male una chiave esiste: affidarsi totalmente al governo”. Narrazioni come queste rendono purtroppo inevitabili paragoni con mondi distopici come 1984 di George Orwell, che funzionava in modo molto simile: schermi per monitorare i cittadini (se la TV è connessa alla telecamera alla quale lo stato ha accesso, è probabile che abbia accesso anche alla TV), cittadini che monitorano altri cittadini, poster e pubblicità che ricordano di rigare dritto e in ultimo la paura di essere osservati e giudicati per tutto ciò che si fa. Ma spingiamoci oltre, su un mezzo che Orwell non aveva immaginato nel suo futuro distopico: quanta libertà c’è nella rete?

Internet

Era il 1994 quando internet arrivò in Cina… e il 1996 quando i primi tentativi di censura vennero applicati.
Due anni dopo, nel 1998, quando la soppressione del Partito Democratico Cinese fece parlare di sé, la censura internet come la conosciamo oggi prese vita sotto il nome di Progetto Golden Shield (scudo dorato). Sotto l’ingegnere Fang Binxing la Cina costruì svariati modi per controllare il traffico internet in entrata e in uscita, in quello che è stato poi definito Great Firewall (la Grande Muraglia Digitale, tuttora attiva), con il compito di decidere quali siti potevano passare e quali no. È per questo che siti come Twitter, Facebook, YouTube, ma anche siti di testate giornalistiche come il New York Times ed emittenti televisive come HBO (qui una lista dettagliata) non funzionano in Cina. Un caso a parte è invece Google che nel 2006 ha aderito a portare una versione autocensurata di sé, che non produceva risultati quali Piazza Tiananmen 1989. Il motto “Don’t be evil” della compagnia americana ha lasciato alquanto a desiderare in un tira e molla “censura ok-censura non ok” fino a dicembre 2018. O anche la Microsoft con Skype, che pur di espandersi sul mercato non si è fatta problemi a lavorare con una compagnia cinese per una versione a parte, che rispondesse alle leggi cinesi di raccolta dati e che applicasse censure quando necessario.

Il controllo del traffico non era comunque sufficiente: notando che internet era un ottimo mezzo per la libertà d’espressione e la crescita di idee differenti da quelle del Partito, nel 2004 la Cina si mobilitò con un esercito digitale di persone chiamate wu mao dang, il “gruppo da 50 centesimi”. Queste persone fanno due cose: segnalano chi non segue le leggi cinesi online, e sviano le discussioni rendendole “pro” Partito. Nel 2013 erano stimati a 2 milioni, e nel 2016 postavano circa 446 milioni di commenti l’anno. Si ricorda inoltre che dal 2013 la pena per creare post non in linea con l’ideologia governativa che ricevono più di 500 condivisioni o 5000 visualizzazioni, è fino a 3 anni di carcere. Con metodi di interrogazione alquanto brutali.

Da fine 2012, con l’arrivo dell’attuale presidente cinese Xi Jinping, la morsa su internet si è fatta più stretta. Prima di allora infatti, i cinesi erano ancora in grado di utilizzare la rete come mezzo di collaborazione: nel 2009 Deng Yujiao, una cameriera, rifiutò di avere un rapporto con un ufficiale del Partito, finendo per accoltellarlo e ucciderlo quando tentò di stuprarla. Quando si seppe in giro, la rete iniziò con lo slogan “Tutti potrebbero essere Deng Yujiao”, con tanto di attivisti coinvolti. E pare che furono proprio queste pressioni sull’opinione pubblica che evitarono il carcere a Yujiao. Ulteriore caso fu l’incidente ferroviario del 2011 a Wenzhou, che vide 40 morti e 172 feriti: dato che il governo aveva promosso l’alta velocità come qualcosa di glorioso per la nazione, i vari media iniziarono a non parlarne “così” male. Tuttavia gli utenti di Sina Weibo, il Twitter cinese, fecero circolare le foto dell’incidente sul social, diffondendo gli accadimenti nudi e crudi e lasciando poco spazio all’immaginazione.

Come si stava dicendo, da fine 2012 le cose sembrano essere peggiorate: oltre le sanzioni sopracitate che hanno spinto le persone a stare più attente a ciò che scrivono, nel 2015 un ulteriore tentativo di tagliare i ponti con ciò che non è la Cina è stato fatto tramite il blocco delle maggiori VPN (servizi internet usati, in questo caso, per scavalcare la muraglia digitale). E, dato che la gente usa ironicamente Winnie The Pooh per riferirsi a Xi Jinping, nel 2017 spazi come il loro motore di ricerca Baidu hanno aggiunto nella lista di termini banditi l’orsetto giallo (ricorda un po’ Erdoğan con Gollum). Sempre del 2015 è il famoso Sistema di Credito Sociale, una rete di punteggi che valuta le abitudini e i comportamenti dei cinesi. Questo sistema che prevede punizioni come non poter prendere i treni ad alta velocità e non poter andare all’estero, per vantaggi come avere più visibilità su app di incontri e sconti sulle bollette, dovrebbe servire a rendere le persone e le istituzioni più affidabili e aiutare a punire chi è sulla lista nera del governo. Queste liste, chiariamo, esistevano da prima dell’arrivo di internet tramite TV e giornali, ma non erano molto efficaci. Ora invece, gli identikit passano anche attraverso le pubblicità di TikTok (抖音, duoyin in cinese) ed essendo le persone facilmente rintracciabili grazie alla tecnologia, trovarle è un gioco da ragazzi. Si specifica che non stiamo parlando di terroristi, ma di persone che non si comportano come il governo vorrebbe (in quanto è il governo a scegliere cosa sia giusto e cosa no).

Ricapitolando: la Cina ha, nel corso degli anni, costruito un enorme compartimento stagno digitale, censurando tutto ciò che non fosse in linea con il Partito Comunista. Per aumentarne l’effetto ha indetto sanzioni come il carcere e lasciato che altre persone facessero il lavoro di ricerca per loro, sviando ulteriormente l’opinione pubblica con ingenti ondate di propaganda online e scoraggiando chiunque a scrivere cose contro il Partito. I comportamenti sulla rete sono poi monitorati da un sistema di credito sociale opaco con impatti sul mondo reale, con sempre più aziende che aderiscono, come l’app di messaggistica WeChat. In altre parole, esprimere la propria opinione online è proibitivo, e la realtà viene distorta da censure sempre più strette e assurde, come sensibilità dei leader danneggiate da Winnie The Pooh.
Si vuole concludere il tutto parlando di telefonia, l’ultima ipotetica frontiera per un dialogo libero.

Telefonia

Nel 2015 nella regione dell’Anhui si contava un database di 70 mila campioni vocali. Con metodi opachi riguardo l’ottenimento di tali campioni, utilizzati per migliorare la tecnologia di riconoscimento vocale del Progetto Golden Shield sopracitato, questi sono stati usati (e forse usati ancora) nelle normali chiamate nel tentativo di scovare dissidenti e criminali senza alcun preavviso. Questo è aggravato soprattutto nella regione autonoma dello Xinjiang dove, nel 2016, sono stati installati 14 nuovi modi per collezionare campioni vocali e facciali. Un report del 2017, al contrario, narra della raccolta dei campioni per motivi preventivi di antiterrorismo.

Per quanto riguarda i telefoni invece, l’app ufficiale del Partito Comunista è stata trovata a raccogliere dati e a inserire accessi remoti (backdoor) con permessi da amministratore sui cellulari di chi l’aveva installata, dando quindi la possibilità alle autorità di fare sul telefono infetto tutto quello che è possibile fare con un telefono. Si potrebbe pensare che nessuno sia obbligato a installare un’app simile, ma non è così: l’app, chiamata “Studia la Grande Nazione” e sviluppata dal colosso del commercio all’ingrosso Alibaba, è richiesta da alcuni datori di lavoro pena detrazione dello stipendio. E per chi vuole dedicarsi alla professione di giornalista, è obbligatorio superare un test sulla vita del presidente Xi – presente sull’app.
Sempre parlando di app, le autorità cinesi sono state trovate a installarne una chiamata BXAQ sui telefoni Android di qualsiasi turista varcasse il confine tra il Kyrgyzstan e la già menzionata regione dello Xinjiang: questa funzionava da scanner, inviando a un server i contenuti del cellulare ed eventuali “allarme rosso” per cose non tollerate dal Partito. Nessun avviso è mai stato comunicato, né prima né dopo l’installazione.

Il quadro dato è alquanto chiaro: il popolo cinese non ha la benché minima possibilità di fare, dire o scrivere quello che pensa se va contro l’ideologia del Partito (che è la definizione di totalitarismo). La loro vita è monitorata per le strade, per la rete; il telefono non è che un ulteriore orecchio governativo. Si è disincentivati dall’esprimersi con la minaccia del carcere, nella paranoia che qualcuno – spinto da paura, da ignoranza o da lavaggio del cervello tramite propaganda – possa inoltre segnalare comportamenti sospetti. Per non lasciare vie di scampo, le identità online sono sempre più collegate a quelle reali, e i database ampliati sempre di più con il pretesto del terrorismo. Non c’è, infine, possibilità di sentire un’altra bandiera, perché lo Stato si guarda bene dal lasciare spiragli per qualsiasi cosa  che non rientra nella sua visione. In un quadro del genere, se niente cambia, le future generazioni nasceranno, vivranno e moriranno dentro un enorme filtro. Anzi, questo già succede con i più giovani, che non sanno cosa sia successo nel 1989 in Piazza Tiananmen.

A proposito di cose che non rientrano nella visione statale, la seconda parte indagherà proprio ciò: di variabili fastidiose e di come siano state soggiogate dallo stesso abuso tecnologico. Del Tibet e dello Xinjiang. Vai alla seconda parte


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Festival della Tecnologia 2019 – Gli occhi della città e la ricerca dell’imprevedibile

Torino. “Grande evento”, recita l’opuscolo. Uno dei più richiesti, tant’è che la sala è gremita e alcune persone vengono fatte accomodare fuori per non ostruire il passaggio e le vie di sicurezza. L’incontro – “Gli occhi della città” di sabato 9 novembre –  riguarda l’accoppiata uomo-tecnologia nelle città attuali e del futuro, coinvolgendo personaggi da tutto il globo: il docente francese di storia e architettura del XX/XXI secolo Antoine Picon, l’architetto italiano Carlo Ratti con cattedra al MIT di Boston, e il professore cinese di architettura Li Zhang.

Dopo una breve introduzione sulla “città intelligente” (smart city) e un accenno a come possa avere derive distopiche – sistema di credito sociale cinese – il pubblico si accinge ad ascoltare la parola degli esperti. Purtroppo però, non è andata come speravamo, tanto che a metà intervento causa disinformazione del professore Picon si è deciso di uscire dall’aula.

La prima incorrettezza, nonché fulcro del suo discorso, la si sente quando il docente francese parla di prevedibilità: egli afferma che, grazie al digitale, il mondo è diventato più prevedibile. Ed è vero, abbiamo d’altronde un mezzo per catalogare qualsiasi cosa, persino le interazioni umane (come i social network). Tuttavia, il professore sostiene anche che in questa prevedibilità si generi paradossalmente l’imprevedibile. Usando come esempio l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.

Si trova un po’ triste che Picon sembri non aver mai sentito parlare di Cambridge Analytica, quando c’è tanto di documentario su Netflix (The Great Hack). Un breve riassunto: un’agenzia che analizza dati crea un sondaggio stile “scopri che persona sei” che richiede l’accesso con Facebook, appropriandosi dei dati di 87 milioni di persone. Con delle banali domande identificano le opinioni della persona e, puntando sugli elettori americani indecisi, utilizzano una campagna pubblicitaria mirata (ovvero ognuno vede contenuti diversi, più attinenti ai propri gusti) per trascinarli a votare Trump. Il tutto, senza che chi ha fatto il sondaggio (né i suoi amici Facebook, coinvolti in automatico anche senza fare il sondaggio) fosse stato a conoscenza di niente. In più, sempre tramite pubblicità mirata, le big tech avevano un ufficio nel quartiere generale di Trump a San Antonio (Texas), cosa che invece la Clinton aveva rifiutato; ciò lo aiutò terribilmente a colmare il divario di voti. Infine, un gruppo di hacker russi – probabilmente governativi, del servizio militare segreto russo GRU – ha affossato la controparte democratica (Clinton e Sanders), bucando il Comitato della Campagna Elettorale al Congresso dei Democratici (DCCC); e un altro gruppo – anche questo probabilmente russo, i Fancy Bear – ha invece bucato il Comitato Nazionale Democratico USA (DNC) consegnando miriadi di mail a WikiLeaks. Si potrebbe obiettare che ci siano stati tentativi da parte di YouTube e Google di portare il voto verso i democratici tramite demonetizzazione di video scomodi e censura nella barra di ricerca, ma rimaniamo comunque 4 a 1. Si potrebbe anche obiettare che l’imprevedibilità a cui si riferiva fosse quella senza il “senno di poi”, ovvero che sul momento quasi nessuno avrebbe potuto determinarne gli esiti, ma la seguente frase da lui pronunciata smentisce ciò: “We can use digital to increase serendipity”, ovvero “Possiamo usare il digitale per incrementare la meraviglia della scoperta inaspettata (serendipità)”. Tra l’altro, il discorso non cambia: qualcuno aveva fatto in modo di portare più acqua possibile al proprio mulino tramite manipolazione di massa; non è un risultato del caso, bensì di campagne marketing ben studiate e sfruttamento inconscio della popolazione. La serendipità è tutt’altro.

Parlando di scoperte inaspettate, prendiamo gli algoritmi di YouTube che consigliano la stessa manciata di video un po’ a tutti, o che appena si apre il video di un determinato contenuto non farà altro che proporre contenuti simili fino allo sfinimento: cosa c’è esattamente di inaspettato? Il video proposto strategicamente da un algoritmo per monetizzare la nostra attenzione? Ma quello che può essere inaspettato per l’utente è in verità pianificato a monte. Non è inaspettato, è studiato per sembrare tale. È omologazione.

Dato che si è citato il sistema di credito sociale cinese, ci si chiede per esempio quanta imprevedibilità ci sia quando si osservano le persone 24 ore su 24 per assegnargli dei punti con un algoritmo. Potremmo chiederlo agli abitanti di Hong Kong che tirano giù le telecamere nel loro protestare, o a questo gruppo di anarchici che armati di rampino e bomboletta spaccavano le telecamere nella notte per le strade di Berlino (i modi di quest’ultimi sono contestabili). Per logica, più qualcuno/qualcosa è tenuto sott’occhio, e più sarà prevedibile capirne il comportamento futuro come un topo in gabbia. Specialmente se si può manipolare il suo comportamento senza che se ne accorga (come con Cambridge Analytica). Questa tesi non sta in piedi ed è dannoso raccontare queste cose a un pubblico che si fida di ciò che dici perché ne sai più di loro.

Andando poi avanti, il professore sembra mancare anche di conoscenze psicologiche, ma non si fa problemi a fare affermazioni. Parlando di Amazon, dice infatti che questo colosso tecnologico ci ha abituato alla gratificazione istantanea. Che se vogliamo una cosa, ci basta un click e il giorno dopo è magicamente da noi: assolutamente vero. Aggiunge però che la gratificazione istantanea non è necessariamente positiva.

Negli anni Sessanta venne fatto fare a dei bambini un esperimento chiamato “l’esperimento del marshmallow”, che a distanza di anni dimostrò come chi riuscì ad aspettare per un premio più grande (in questo caso 2 marshmallow al posto di 1 se aspettavano 15 minuti senza mangiare il primo) avesse acquisito una migliore risposta allo stress, minor possibilità di obesità e di abuso di sostanze, migliori abilità sociali e quant’altro. In altre parole, una vita più sana. E questo lo possiamo notare nella vita di tutti i giorni: avete presente quella sensazione da studenti di fare i compiti subito e poi avere il pomeriggio libero? Che all’inizio è pesante ma pensando alla ricompensa sul lungo corso ci si fa forza e, una volta finiti, si è contenti di aver resistito? Esattamente la stessa cosa. La gratificazione istantanea non è a prescindere positiva, non per niente ci accade – per esempio – quando abbiamo la luna storta (tipo sapere che mangiare tre fette di torta ci farà sentire pesanti, ma dato che abbiamo appena litigato con qualcuno non ce ne importa nulla). E questi meccanismi, insieme ad altri, sono quei trucchetti psicologici usati da molti siti per tenerci incollati nei loro spazi o per farceli aprire (“diventa magro in 7 giorni!”, “scopri subito come <qualcosa>”), che fan sembrare tutto facile, come se fare sforzi fosse diventato una cosa “di altri tempi”. Certo, questa rimane una piccolezza rispetto al discorso del prevedibile, ma ha comunque dato abbastanza fastidio da farci poi uscire una volta finito il suo discorso, che ruotava appunto su questo concetto dell’imprevedibilità.

Il punto è che quando si è chiamati su un palco, bisognerebbe parlare di quelle che Spinoza definiva “idee adeguate”. Ovvero, idee che riusciamo ad avere perché ne abbiamo comprese le cause, idee non confuse. Quando invece un’idea confusa diventa il fondamento del proprio pensiero (non mi pare abbia indagato le cause delle elezioni americane o della sorveglianza di massa) e si decide di spiegarla alla gente, si sta, volontariamente o meno, facendo del male a quelle persone. Come in questo caso.