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Cara distopia: l’istruzione ai tempi del COVID-19

In data 23 giugno abbiamo ricevuto una segnalazione da parte di uno/a studente/ssa che lamenta come la rinomata Accademia di Brera abbia inviato agli studenti una mail insolita: per sostenere l’esame obbligatorio Fondamenti di Informatica, spiega la mail, gli studenti dovranno connettersi alla piattaforma Zoom ed esibire all’insegnante la propria carta d’identità e codice fiscale via webcam. Per prepararsi al test viene fornita una simulazione accessibile a tutti che, parole dell’accademia, è comparata a quei “tutorial formativi spiritosi” degli ultimi tempi perché “l’informatica è di per sé un argomento noioso”. Quanti danni può quindi comportare un atteggiamento simile? La risposta è tanti.

Ci siamo dilungati già abbastanza su come Zoom non sia una piattaforma incentrata sulla privacy, finendo negli ultimi mesi al centro di numerosi scandali riguardo sicurezza, riservatezza ed etica. Le ultime novità riguardano il tentativo di rendere la privacy un diritto solo dell’utenza pagante perché “vogliamo comunque collaborare con l’FBI” (facendo poi un passo indietro), e la sospensione degli account di alcuni attivisti cinesi che avevano svolto una veglia su Zoom in ricordo di Piazza Tiananmen 1989, perché l’azienda voleva essere in linea con le leggi locali dei singoli stati (ma 1. alcuni attivisti come Zhou Fengsuo sono cittadini americani e 2. non c’è una legge in Cina che vieti simili veglie). Abbiamo perciò inviato una e-mail/lettera aperta all’Accademia nella speranza che rivalutasse uno strumento simile – soprattutto quando si tratta di documenti altamente personali come carta d’identità e codice fiscale – ma non abbiamo ricevuto risposta.

Il test per prepararsi non lascia meno a desiderare: per funzionare ha bisogno di Adobe Flash Player, un programma che viene sconsigliato dall’azienda Adobe stessa e che da fine 2020 raggiungerà la fine del suo ciclo di vita. Per un programma, raggiungere la fine del ciclo di vita equivale a non ricevere più né aggiornamenti né assistenza: in altre parole, se viene trovata una falla di sicurezza, questa non verrà sistemata e sarà sfruttabile per sempre. Ma anche senza guardare al futuro, la nomea di Flash Player riguardo a sicurezza e privacy non gode a prescindere di una buona fama, tanto che è uno strumento generalmente e altamente sconsigliato dalla comunità informatica (non sono mancati neanche i problemi etici).
In questo caso però, non è solo il mezzo a essere carente, bensì anche le domande del test ad essere ambigue se non proprio sbagliate. E la presentazione del test, più che “spiritosa” sembra una barzelletta (aprite a vostro rischio e pericolo).

Brera-domande
Quando l’informatica è noiosa, ma sia la B che la C sono giuste e il test non è a risposta multipla

Pensare che Brera sia un caso isolato è uno sbaglio: meglio detto, trovare una scuola che non faccia uso di strumenti come Zoom, Microsoft Teams o Google Classroom – i quali chi più chi meno mercificano l’esperienza dello studente a scopi perlopiù pubblicitari – è come cercare un ago nel pagliaio. Strumenti simili sono allettanti perché non richiedono una spesa da parte del cliente, ma si tiene poi poco conto del vero prezzo da pagare a livello di privacy. A onor del vero non è sempre così, perché c’è addiritutra chi questi strumenti li paga: è il caso del FITSTIC (Fondazione Istituto Tecnico Superiore Tecnologie Industrie Creative), da noi contattato dopo un’altra segnalazione a tema Zoom con una mail molto simile a quella inviata all’Accademia di Brera. La direttrice Morena Sartori ci ha infatti informato del fatto che la versione Zoom da loro utilizzata è quella a pagamento, e che hanno scelto un simile programma perché “possiede le specifiche tecniche per organizzare l’evento”. Nessun accenno dunque ai problemi di privacy e sicurezza elencati nella mail. Anzi, non manca un’auto-pacca sulla spalla dato che “In questo modo diamo agli studenti la possibilità di conoscere le opportunità di studio dopo il diploma”. Si ricorda che il FITSTIC rientra nei percorsi di studio certificati dal Ministero dell’Istruzione.

Se l’idea di scuole pubbliche in mano ad enormi agenzie pubblicitarie non sembra distopica abbastanza, ci pensa VICE con il suo approfondito articolo sui sistemi di monitoraggio degli studenti durante gli esami a infliggere il colpo di grazia. Dato che bisogna essere sicuri che gli studenti non copino anche se non li si può davvero controllare al 100% essendo a distanza, si è passati da avere più webcam puntate sullo studente – portatile e cellulare, solitamente con Zoom su entrambe – a usare sistemi di rilevamento facciale e oculare per assicurarsi che siano posizionati perfettamente davanti allo schermo. Tra i nomi dei programmi usati vi sono Safe Exam Browser, LockDown Browser, ProctorExam, SMOWL CM, Proctorio e Proctortrack, di cui solo il primo permette di verificare cosa fa esattamente (in gergo tecnico open source, codice aperto). In altre parole, le aziende rimanenti dicono alle scuole di fidarsi nonostante maneggino dati altamente sensibili, fornendo in alcuni casi delle statistiche capillari sul comportamento degli studenti durante l’esame o avendo ampio accesso al computer di chi sostiene la prova. A poco dunque servono i consigli come quelli della Statale di Milano o dei test universitari CISIA di nascondere dalla stanza eventuali affetti personali per non ledere la propria privacy, dato che è lo strumento in primis a essere un’incognita che o è finito in mezzo a ripetuti scandali o nessuno sa davvero come funziona (azienda a parte).

Introduciamo lettori e lettrici al principio del Rasoio di Occam: questo concetto, che prende il nome dal frate Guglielmo di Occam vissuto nel XIV secolo, dice di valutare una soluzione partendo da quella più semplice. Per esempio, se vivessimo nella fredda Islanda e un giorno decidessimo di trasferirci nel caldo Sudafrica, non potremmo continuare a vestirci con abiti pesanti. Cosa fare dunque? Cerchiamo di abbassare la temperatura in Sudafrica implementando per tutta la nazione complessi sistemi di congelamento che inquinerebbero mezzo mondo e che richiederebbero anni per essere ideati, oppure ci vestiamo più leggeri? La risposta appare banale, ma è questo ciò che sta succedendo con la scuola: pur di mantenere i vecchi metodi (il vestirsi pesante) nonostante il contesto sia cambiato (la temperatura), trova soluzioni altamente complesse che non sono comunque come l’originale e che anzi danneggiano le altre persone (i sistemi di congelamento). Da quali soluzioni semplici partire allora? Considerando che: non si potrà mai avere il pieno controllo sullo studente, la gente se ne ha la possibilità imbroglia, e non tutti hanno una connessione stabile o abbastanza potente per questi sistemi di monitoraggio… che si lascino copiare gli studenti.

Avete capito bene, non c’è dato di volta il cervello: che si lascino copiare gli studenti. La temperatura è cambiata, c’è poco da fare: il metodo fra i banchi non funziona fra le mura di casa e il controllo che cercano le scuole è una semplice illusione, che più la si rincorre e più danneggia studenti e insegnanti. Perché allora non fare esami più difficili? Tieni, usa pure il libro o internet come supporto, ma ti serviranno a poco se tanto non hai diluito lo studio nelle settimane prima e/o non hai frequentato quel minimo. Oppure presentami un progetto, magari realizzato in gruppo, che richiede tempo e impegno per essere fatto. O ancora si opti per orali che siano un dialogo, ma usando piattaforme etiche e non ditte pubblicitarie più simili a nazioni digitali che giocano a Risiko dentro le istituzioni pubbliche. E certo, anche in questo caso sarà pur sempre possibile imbrogliare chiamando l’amico/a che ne sa di più per farsi suggerire negli esami scritti, ma almeno per una persona cretina – perché se pensa che l’università sia una gara a chi finisce prima e non un luogo dove apprendere, confrontarsi e conoscersi è una persona cretina – non ci andranno di mezzo tutti gli altri (e auguri comunque con gli orali e i progetti). Niente sistemi informatici complessi che portano ulteriori problemi, niente requisiti di connessione che escludono economicamente e/o geograficamente (1,5 Mb/s in upload sono un sogno per chi abita lontano dalla città), bensì un approccio consapevole al problema, che dica “Ok, non è come prima.”

Questo periodo incerto potrebbe essere un’occasione per rimanere umani seppur dietro uno schermo e i limiti che impone, e non un modo per terrorizzare gente con metodi che sembrano usciti da 1984. E questo, programmi di monitoraggio a parte, vale anche per quegli e quelle insegnanti di medie e superiori che per tener al guinzaglio gli studenti, in questi mesi non hanno saputo far altro che dar loro molti più compiti di quando erano tra i banchi; come se fossero cretini incapaci di fare altro e senza tener conto del fardello psicologico che chi più chi meno si è portato dietro durante la quarantena. Nulla a che vedere con i loro colleghi e colleghe, invece, che hanno instaurato un dialogo con i loro pupilli, che si sono dimostrati per l’appunto umani e hanno saputo insegnare senza trattare nessuno come bestie da soma trasportanti nozioni. O come la preside dell’Istituto Comprensivo Bianco-Pascoli di Fasano che ha interrotto la didattica a distanza con Google Suite non perché aveva dubbi sul rispetto della privacy dei suoi alunni, ma poiché aveva letto la lettera del Garante della Privacy e – ben conoscendo la normativa – sapeva che era lei a rispondere civilmente e penalmente, non il fornitore del servizio. Per aver tutelato i suoi alunni si è, paradossalmente, dovuta subire l’ira di genitori avvocati con l’accusa di interruzione di pubblico servizio.

Poi, in tutta franchezza, si parla tanto di digitalizzazione, ma ci teniamo a ricordare cos’è successo con l’INPS qualche mese fa: l’Italia non è pronta a passi del genere, l’Italia non sa neanche dove mettere le mani. È un po’ come quei nonni che vogliono stare così al passo coi tempi che iniziano a parlare e vestirsi come i 15enni: si sporca un po’ la bocca di parole nuove che in verità già esistono nella sua lingua per sembrare più alla moda – new normal, high-tech, fake news, infotainment, self-awareness – e alla fine il risultato è questo:

mrburns_teenager_meme

Seriamente parlando a studentesse e studenti, insegnanti e genitori: la privacy vostra e di chi vi sta intorno non vale 30€ di un esame universitario, né la vostra carriera sparirà nel nulla per saltare un semestre. Ricordatevi che “una volta su internet, sempre su internet” e che un abuso non ne giustifica un successivo; vi invitiamo perlomeno a riflettere su tutto ciò.
Perché se volete regalare dati a Facebook va bene, è una vostra scelta (anche se non vi consigliamo di farlo e vi indirizziamo anzi alla nostra guida sulla privacy online); ma quando un’istituzione pubblica vi obbliga a mercificare la vostra esperienza chiedendovi di scegliere tra diritto all’apprendimento e diritto alla privacy, allora lì non va più bene. E che anche incazzarsi è una scelta.

Immagine di copertina: Villemard, En l’an 2000 – À l’École


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Test universitario online CISIA: perché è inadeguato e non andrebbe fatto

Test universitario online CISIA: perché è inadeguato e non andrebbe fatto

L’anno scorso il CISIA (Consorzio Interuniversitario Sistemi Integrati per l’Accesso) era presente in 104 facoltà universitarie italiane, erogando per loro il test d’ingresso TOLC (Test OnLine CISIA). L’iscrizione a questo test d’ingresso fece già all’epoca parlare di sé, in quanto un utente su Reddit denunciava che nell’iscrizione veniva richiesto obbligatoriamente un dato biometrico.

Dopo ulteriori indagini e aver contattato direttamente il DPO del CISIA Biagio Depresbiteris per delucidazioni, risultò che il famoso dato era una fotografia dell’alunno, che sarebbe stata immagazzinata per un massimo di 3 anni e che sarebbe stata utilizzata “soltanto per rendere più efficace, sicuro e veloce il riconoscimento dello studente” durante il test. La foto sarebbe infatti apparsa a schermo sui computer della prova, permettendo ai commissari di sala di verificare la corrispondenza tra studente e immagine. Il DPO dichiarò inoltre che non sarebbe stata trattata da software di nessun tipo (di conseguenza neanche quelli di riconoscimento facciale).

Etica Digitale all’epoca non disponeva dei mezzi per poter verificare tutto ciò, tant’è che a parte congetture personali come “è davvero necessario caricare la foto online? Che problemi porta il sistema attuale con la carta d’identità mostrata sul posto? Si sta esponendo la privacy dello studente inutilmente? Non richiede più tempo il dover allegare la foto rispetto al metodo precedente?” non potemmo fare altro. Tuttavia, a meno di un anno di distanza il CISIA torna tra le segnalazioni con quello che è stato il suo adattarsi all’emergenza COVID-19: il TOLC@CASA.

TOLC@CASA è un test d’ingresso adottato da alcune facoltà che ne permette lo svolgimento da casa propria tramite la piattaforma Zoom e un’impostazione particolare della stanza. Nel PDF chiamato “Configurazione Stanza TOLC@CASA, Prove ed Esigenze di Rete” infatti, vengono indicati i requisiti per sostenere il test e su come lo studente dovrà vestirsi, prepararsi e comportarsi per risultare idoneo.

Partendo dal software utilizzato, Zoom è stato nel mese d’aprile travolto da articoli su articoli riguardanti le falle non solo sul lato privacy, bensì anche su quello della sicurezza, tanto da rischiare una causa. Per via di ciò, i ban alla piattaforma non si sono fatti aspettare, sia da aziende come l’americana SpaceX che ha dichiarato a riguardo “gravi preoccupazioni”, sia dalle scuole di interi stati come Singapore. Di suo, la ditta di Zoom è subito corsa ai ripari fermando tutte le nuove funzioni in programma per 90 giorni e concentrandosi sull’aspetto della sicurezza; tuttavia, sull’adeguatezza del suo operato c’è discordanza fra gli esperti, che oscillano tra “uno dei migliori” e “caz**te ipocrite”, dove quest’ultimi incolpano l’azienda di essersi preoccupata di ciò solo perché aveva iniziato a fare troppo rumore — al posto di progettare un sistema incentrato sulla privacy fin dall’inizio. Quest’ultimo punto è infatti corroborato dalla policy dell’azienda, che dichiara di utilizzare i dati raccolti con strumenti di tracciamento come Google Analytics, cookie e fingerprinting anche per fini commerciali. In altre parole, il CISIA sta – volontariamente o meno – mercificando l’esperienza scolastica degli studenti.

Per quanto riguarda lo svolgimento della prova invece, lo studente dovrà sedersi in una stanza dotata di un’unica porta, con abbastanza luce e con il cellulare alle sue spalle che inquadra – appunto – le sue spalle, la porta, il computer e la scrivania. In altre parole, Zoom girerà sul telefono che funzionerà da telecamera per i commissari di sala. Il CISIA consiglia anche di non tenere elementi personali nella stanza come libri o testi sacri per preservare la privacy dello studente, cosa che però viene abbastanza vanificata da quanto dimostrato nel paragrafo precedente. A ciò bisogna aggiungere la raccomandazione di disattivare l’antivirus per permettere agli strumenti offerti dal CISIA di girare indisturbati qualora potesse dare problemi: indagando il codice della simulazione non abbiamo trovato nulla di strano se non commenti… creativi, ma rimane la domanda se verranno aggiunti o meno programmi nella prova ufficiale e se di conseguenza saranno a codice aperto per garantire allo studente che fanno solo quello che dichiarano di fare.

Codice della simulazione del CISIA che recita “Da aggiustare nel cazzo di Opera (?!)” (Opera infatti non è elencato nel PDF tra i browser accettati)

I requisiti poi diventano un vero e proprio ostacolo per chi vuole sostenere la prova: al di fuori della stanza idonea e dell’hardware come avere un PC e un telefono abbastanza recenti che già possono essere limitanti, il problema principale giace nella connessione richiesta: almeno 600kbps in upload. In questi ultimi mesi, i rallentamenti alle connessioni internet sono all’ordine del giorno in quanto siamo stati costretti – chi più, chi meno – fra le mura di casa, tanto che in misura preventiva anche Netflix e YouTube hanno ridotto la qualità dei propri video per evitare sovraccarichi (non disponiamo di dati alla mano, ma invitiamo il lettore a fare mente locale della sua esperienza quotidiana). Senza contare inoltre chi risiede in alcuni paesi lontani dalla città, dove i problemi di connessione persistono da anni.

Per ovviare a ciò, il CISIA ha dichiarato sul suo blog che chiunque non possa sostenere TOLC@CASA, avrà la possibilità di svolgere il normale TOLC nei mesi a venire direttamente presso le sedi universitarie. E che se ciò non fosse comunque possibile, che si adopereranno per trovare soluzioni efficaci. Il nostro dubbio, data questa affermazione, è: perché allora non rimandare il tutto in quei mesi a venire?

Nonostante tutte le misure adottate infatti (come non poter indossare abiti con grandi tasche dove riporre oggetti), non sarà comunque impossibile per lo studente imbrogliare – e pensare che nessuno lo farà equivale a essere ingenui. Per esempio, se si abita al piano terra e la stanza dispone di una finestra, basterà avere una persona al di fuori di essa che legga le domande sullo schermo, ne cerchi la risposta su internet e la comunichi nei modi più creativi (come colpi di tosse, rumori o cartelloni con risposte). In altre parole, il sistema è scavallabile e rischia di diventare una semplice gara a chi si ingegna di più.

Vale quindi la pena mercificare lo studente, non avere certezze sulla correttezza della prova, e applicare dei requisiti che funzionano da vero e proprio sbarramento economico, solo per avere una possibilità in più di tentare il test?

L’articolo è stato modificato una volta in data 07/05/2020 dopo aver controllato il codice JavaScript della simulazione CISIA


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Cliqz: il motore di ricerca indipendente chiude i battenti

Dopo che il progetto FUSS – che da 15 anni garantiva alla Provincia Autonoma di Bolzano software libero per studenti, insegnanti e non solo – è stato annullato dall’assessorato alla cultura proprio in un momento dove l’istruzione e il lavoro in remoto sono diventati essenziali (ma che per fortuna è stato reintegrato in Commissione Europea), è giunta due giorni fa un’altra stangata: Cliqz, il motore di ricerca europeo indipendente che recitava “Se non agiamo ora, diventeremo una colonia digitale (americana, ndr.)” ha chiuso. Riportiamo di seguito la traduzione gentilmente offertaci da D.V. del loro post originale: Farewell from Cliqz.

Addio da Cliqz

Cari amici di Cliqz,

Ieri abbiamo annunciato, non a cuor leggero, che la storia di Cliqz è giunta al termine. Una terribile decisione ma l’unica possibile. Non c’è futuro per Cliqz così com’è oggi.

Durante l’ultimo anno, le persone ci han chiesto come Cliqz potesse fallire. Domanda facile a cui rispondere: infatti, siamo sempre stati più vicini al fallimento che alla riuscita ma ci abbiamo comunque provato, pur sapendolo.

Abbiamo superato molti ostacoli: saremmo stati capaci di attrarre i migliori talenti per costruire da 0 un nuovo motore di ricerca che rispettasse la privacy? Saremmo riusciti a prendere i dati giusti per allenare il nostro motore di ricerca? Saremmo stati in grado di fare tutto senza utilizzare scorciatoie o l’indicizzazione del web di altri motori di ricerca (al contrario degli altri)? Abbiamo ribaltato i pronostici molte volte.

Ma non questa volta: non avevamo previsto una pandemia arrivare. Non ci aspettavamo che un virus avrebbe potuto colpire Cliqz e, anche solo un mese e mezzo fa, abbiamo sottovalutato cosa avrebbe fatto all’economia e, anche più, alle priorità della politica. Ci è divenuto chiaro nell’ultima settimana che tutte le iniziative politiche per creare un’infrastruttura digitale indipendente europea sono state bloccate o postposte per anni. Il Covid-19 sta oscurando tutto il resto: questo clima non è adatto per avere una discussione significativa riguardo fondi pubblici per una soluzione come Cliqz.

Anche se la nostra storia finisce qui, non ci pentiamo di nulla. Abbiamo costruito ottimi prodotti durante gli ultimi anni. Browser che proteggono la privacy dell’utente. Human Web, che è un modo straordinario per avere i dati per allenare il proprio motore di ricerca rispettando il nostro fondamentale diritto alla privacy. La nostra, unica nel suo tipo, ricerca veloce che ti permette di cercare direttamente nel browser. Un nuovo approccio che unisce pubblicità mirate e privacy. La più potente tecnologia anti-tracciamento e blocco-contenuti. Dulcis in fundo, il nostro motore di ricerca. Il nostro obiettivo era quello di costruire uno dei pochi, realmente indipendenti, motori di ricerca. Lo abbiamo costruito da 0, non abbiamo utilizzato l’indicizzazione del web di qualcun altro. Funziona ed arriva all’utente con 100% privacy, senza bisogno di modifiche. Abbiamo sconfitto tutte le previsioni; abbiamo sconfitto tutte le persone che ci hanno sempre ripetuto che ci sarebbe costato miliardi.

Purtroppo, non siamo riusciti a rendere le persone coscienti del problema; non siamo riusciti a raggiungere un bacino di utenza che ci avrebbe permesso di finanziare da soli il nostro motore di ricerca. Abbiamo raggiunto centinaia di migliaia di utenti ogni giorno ma – questo è lo svantaggio di utilizzare solo le nostre tecnologie – non è abbastanza per continuare a coprire tutti i costi. Più di tutto, abbiamo fallito nel convincere i nostri politici stakeholders che l’Europa abbia un disperato bisogno di una propria, indipendente, infrastruttura digitale. Possiamo solo sperare che qualcun altro prenda la palla al balzo per noi. Tutto ciò è ancora vero: l’Europa ne ha bisogno; il mondo ha bisogno di un motore di ricerca che rispetti la privacy e che non utilizzi Google o Bing dietro le quinte. Il mondo merita una rete più equa e migliore. La pandemia non ha cambiato tutto questo.

Non abbiamo fallito creando un’enorme conoscenza. Non abbiamo fallito facendo le cose in modo differente. Non abbiamo fallito combinando dati e privacy. Più di tutto, non abbiamo fallito creando un fantastico ed appassionato team intorno a Cliqz.

Dobbiamo anche ringraziare Hubert Burda Media, come compagnia e come investitore. Hanno predicato bene e razzolato bene: credere in un internet migliore era possibile. Non potevamo sperare in un miglior partner.

Siamo fieri di tutti quanti: chi ha lavorato con Cliqz e chi ci ha supportato. Grazie a tutti di cuore per questo viaggio. Grazie a tutti i nostri utenti per credere in noi e darci preziosi consigli.

Grazie per aver creduto in qualcosa che non è mai stato facile realizzare sin dal principio, ma nel quale valeva la pena credere.

La storia di Cliqz, come la conosciamo, termina qui, ma ne è valsa la pena.

Addio,

dal vostro Team di Cliqz

Cliqz forse non era lo strumento perfetto, ma rimane innegabile il suo contributo verso il software libero e verso l’indipendenza digitale.

Immagine in anteprima: Cliqz

Quando il videogioco diventa una scelta politica: di Tencent, Blizzard e Riot Games

Sarà capitato a tutti almeno una volta di mettersi davanti al proprio computer/cellulare e intrattenersi con un videogioco: Tetris, Minecraft, Candy Crush Saga, League of Legends, World of Warcraft, Clash of Clans, l’universo videoludico è composto da milioni e milioni di titoli un po’ per tutti i gusti. Alla fine della giornata si potrebbe pensare che il videogiocare sia in generale tempo per sé stessi (a meno che non lo si faccia per lavoro), e che l’unica cosa che si possa fare di male è stare troppo incollati allo schermo. Insomma, farsi del male da soli. Ma non è proprio così.

La nostra storia inizia con Riot Games, compagnia americana e creatrice del gioco strategico più famoso al mondo League of Legends, che fu comprata nel 2015 dalla multinazionale cinese Tencent, alla quale appartiene tuttora. Per inquadrare Tencent, si tenga presente che all’entrata del suo quartiere generale a Shenzhen svetta un cubo che recita “Follow our party, start your business” (Segui il nostro partito, inizia il tuo business). Che, per non lasciare dubbi, è accompagnato dal simbolo di falce e martello come richiamo al Partito Comunista Cinese. La sua devozione al Partito, dei quali crimini verso l’umanità abbiamo parlato approfonditamente qui e che continuano tuttora, non è infatti un segreto, ed è sotto gli occhi di tutti; a partire dai giochi patriottici realizzati dal 2019 come “Applaudi per Xi Jinping: un discorso strabiliante” e l’app di messaggistica WeChat. Quest’ultima, di sua proprietà e diffusa anche in Occidente, non è infatti che una delle tante orecchie digitali in mano al governo cinese, attraverso la quale esercita una continua sorveglianza.

Per capire la grandezza di un conglomerato simile, si pensi che Tencent è la compagnia asiatica più valutata sul mercato, arrivando al 5° posto globale nel 2018, subito dopo Google, Apple, Amazon e Microsoft. Essa include motori di ricerca, videogiochi, finanza, computer, automobili, realtà virtuale, musica, animazione e tanto altro (rimandiamo a Wikipedia per una lista esaustiva), con azioni in più di 600 compagnie diverse. Tra queste compagnie svettano anche nomi occidentali – come appunto Riot Games – rendendo Tencent dentro la vita del giocatore medio più di quello che ci si potrebbe aspettare: troviamo infatti compagnie videoludiche come la finlandese Supercell (della quale possiede l’84,3%), le americane Epic Games (40%) e Activision Blizzard (5%), ma anche donazioni da parecchi milioni a piattaforme come Reddit (150 milioni) e Discord (cifra non rivelata). Attualmente Riot Games è l’unica a essere al 100% Tencent.

Blizzard: quando il 5% rende Hong Kong scomodo

Date le cifre, si potrebbe pensare che il conglomerato cinese non abbia gran controllo su compagnie di cui detiene una piccola percentuale: eppure, quello che è successo nel 2019 durante il torneo mondiale di Hearthstone, ha dimostrato il contrario. Hearthsone, per chi non lo sapesse, è un gioco di carte collezionabili online della Activision Blizzard, famosa soprattutto per il primo gioco di ruolo online mai creato – World of Warcraft – ma anche per altri titoli come Diablo e Overwatch.

Nel tal evento tenutosi a Taipei, Taiwan, quando un giocatore di Hong Kong in arte Blitzchung vinse il torneo e si apprestò a essere intervistato dai due conduttori per un commento a caldo, questi gli diedero il permesso per dire le sue “8 parole” per finire l’intervista, cercando di nascondersi dietro gli schermi. Fu in quel momento che Blitzchung esclamò “Hong Kong libera, rivoluzione ora” (光復香港, 時代革命, Guāngfù xiānggǎng shídài gémìng), il famoso slogan della rivoluzione. Seguì un applauso sommesso da parte dei conduttori, ma il danno ormai era fatto: i due furono licenziati in tronco e Blitzchung si ritrovò bandito per un anno dalla competizione, squalificato dal torneo in corso e privato del premio in denaro ($10.000). Questo per aver violato una delle regole, che vieta “atteggiamenti che possono offendere una parte del pubblico o danneggiare l’immagine di Blizzard”.

Alla comunità di internet la cosa non andò giù: a suon di #BoycottBlizzard (boicotta Blizzard) spazi come Reddit e Twitter furono travolti da immagini di campi di concentramento cinesi, screen di gente che aveva cancellato il suo account Blizzard come protesta, personaggi cinesi dei giochi Blizzard storpiati con inni a supporto di Hong Kong, e messaggi di solidarietà in generale verso i suoi abitanti. Anche nella vita reale non mancarono proteste davanti agli studios della compagnia o al suo evento annuale Blizzcon, tra manifestazioni pacifiche fuori e “Free Hong Kong” (Hong Kong libera) esclamati nelle sale. Data la situazione, altre case videoludiche come Epic Games invece misero subito le mani avanti, dichiarando che non si sarebbero mai comportate come Blizzard, nonostante fossero anch’esse in parte della Tencent.

Non tutti a Blizzard, tuttavia, accettarono quello che stava succedendo: un piccolo numero di impiegati abbandonarono il posto di lavoro in segno di protesta. Un impiegato di lungo corso dichiarò al Daily Beast che “l’azione intrapresa è alquanto agghiacciante, ma non deve stupire. Blizzard fa un sacco di soldi in Cina, ma ora la compagnia è in questa posizione problematica dove non possiamo tenere fede ai nostri valori”. Nel frattempo non si fece attendere un’ulteriore problematica, per chi provava a cancellare il proprio account: il servizio, forse per sovraccarico, forse volutamente, non funzionava praticamente più. L’azienda si difese dichiarando “difficoltà tecniche”, ma le accuse di impedimento volontario si stavano facendo sempre più marcate da parte dell’utenza.

Dopo giorni di follia e una lettera da parte del Congresso americano all’azienda che definiva la situazione preoccupante, la storia si “concluse” con la riduzione della pena di Blitzchung da un anno a sei mesi, la riassunzione dei conduttori con una sospensione di sei mesi, la restituzione del premio, e delle scuse implicite al Blizzcon. Neanche a dirlo non furono molti coloro che si bevvero la storia, e anzi il giogo cinese continuò a far parlare di sé a causa delle posizioni di censura che l’NBA adottò subito dopo per motivi pressoché identici.

Valorant: quando per giocare a un gioco è ok essere monitorati

Catapultandoci un anno in avanti, Tencent torna in questi giorni a far parlar di sé col lancio di Valorant, il nuovo gioco di Riot Games. Dopo il rilascio della closed beta – ovvero la versione ad accesso limitato per scovare e aggiustare eventuali errori prima del lancio ufficiale – si inizia infatti a parlare di qualcosa di strano, che era in verità già stato annunciato giorni prima dalla Riot stessa: l’anticheat – quel programmino che impedisce ai giocatori di imbrogliare – non si avvia al lancio del gioco per chiudersi all’uscita; al contrario, si avvia in automatico all’accensione del computer, e rimane attivo finché il PC non viene spento, anche se il gioco non viene mai aperto. Vanguard (questo è il nome dell’anticheat) viene inoltre eseguito con i permessi d’amministratore, avendo accesso completo a tutti i file di sistema; in altre parole, per assicurarsi che i giocatori non imbroglino, Riot Games monitora ogni computer dall’accensione fino allo spegnimento, con un programma che può potenzialmente fare di tutto.

Lo YouTuber canadese Mutahar Anas in arte SomeOrdinaryGamers ha trattato a fondo la questione in un video, spiegando in primis che, se uno si intende di computer, scavallare un anticheat simile non è comunque impossibile (cosa ammessa anche da Riot nel suo annuncio ufficiale). Si sta quindi rinunciando alla propria privacy per una sicurezza che non è totale, in una situazione dove Riot Games non si fida dei giocatori ma al tempo stesso chiede di fidarsi di lei e dell’azienda che c’è dietro. Questo è infatti il sunto della risposta di uno dei programmatori Riot, dove afferma che dopo l’installazione del gioco il PC va riavviato per garantirgli l’accesso completo, o Vanguard non lo considererà fidato. Lo YouTuber sottolinea poi che, anche se l’azienda si comportasse nella maniera più corretta possibile, l’anticheat sarebbe comunque una potenziale arma in mano a qualsiasi hacker malintenzionato. E aggiunge inoltre che è inutile adottare stratagemmi da “smanettoni” come far partire il gioco su una macchina virtuale per evitare l’accesso al proprio PC, perché al momento la funzione non è supportata.

Terenas, YouTuber italiano e partner ufficiale Riot Games invece sminuisce la situazione, segnalando che molti dei giochi online più famosi usano già da tempo l’EasyAnticheat, un anticheat anch’esso con accesso completo (omettendo però che al contrario di Vanguard, si avvia solo quando il gioco viene aperto). Riporta inoltre che ci sono così tante falle conosciute nei programmi e accessori che usiamo ogni giorno – tastiere, schede video, processori ecc. – che non c’è bisogno di un anticheat con accesso completo per iniettare virus dentro a un computer e prenderne il controllo, che basterebbe anche una mail. E che “di conseguenza, preoccuparsi per un sistema che è fatto apposta per proteggervi, che possa accedere alle vostre informazioni, fa un po’ sorridere quando ci sono tanti altri problemi in merito che potrebbero preoccupare”. Liquida infine il discorso Tencent incolpando il terrorismo mediatico, chiedendo ai suoi seguaci di provare ad aver fiducia in Riot e consigliando di mostrare il video ai propri amici un po’ paranoici. Per cercare di rassicurare i propri utenti, nel frattempo, l’azienda ha messo in palio 100.000 dollari a chiunque riesca a trovare una falla nell’anticheat.

Hytale: altri giochi in arrivo

Per concludere la lista di giochi, un altro titolo molto richiesto targato 2021 sempre di casa Riot è Hytale, che si prospetta un po’ come l’erede di Minecraft e che è atteso con ansia dalle comunità di videogiocatori. Sviluppato precedentemente da Riot Games e Hypixel Inc, quest’ultimi sono stati acquistati di recente dai primi, diventando quindi a tutti gli effetti proprietà di Tencent. Sembra dunque che il successo di Riot Games non si appresti a fermare, e anzi punti a far abdicare anche il gioco a cubetti più famoso del mondo per prenderne il posto.

Conclusione

Quello su cui vorremmo far riflettere non sono tanto le sue manovre di mercato, quanto la più totale inconsapevolezza di certi discorsi nelle persone adulte (o ancora peggio del far finta di niente in nome del mercato o chicchessia) che dovrebbero essere responsabili dell’istruzione delle nuove generazioni. Non pretendiamo infatti che un ragazzo di 14 anni impari da sé degli orrori del governo cinese tra tibetani e uiguri perseguitati, campi di concentramento derivati dai gulag, tratte di spose schiave, politica del figlio unico con aborto e sterilizzazione forzata, rivoluzione di Hong Kong e quant’altro. Chiediamo però che se ne parli, in primis in quei mezzi d’informazione che dovrebbero appunto informare la popolazione. Come già espresso in un articolo precedente, che senso ha condannare la Shoah quando succede la stessa identica cosa al giorno d’oggi in Cina da 70 anni a questa parte? Se le persone non sono consapevoli di questi avvenimenti, lo saranno ancora meno di quelli che passano più in sordina (ma altrettanto dannosi) come chi c’è dietro a un videogioco. Videogiochi che anzi vengono accolti con entusiasmo perché “è divertente”.

La responsabilità giace in chi per esempio sminuisce il discorso Tencent a “terrorismo mediatico”, spingendo ragazzini a provare un gioco in mano a un’azienda che – volente o meno – deve rispondere a una dittatura; gente che si difende con del qualunquismo e con una logica sulle note di “prima o poi si muore, tanto vale farsi uccidere”. La responsabilità giace in quelle aziende e in quegli impiegati del mondo occidentale che non rischiano il carcere – o peggio la vita – se non si sottomettono al volere cinese; quelle persone quindi che hanno davvero la possibiltà di scegliere, che possono banalmente cambiare posto di lavoro al solo volerlo (perché per lavorare presso Blizzard o Riot, bisogna già avere un portfolio di tutto rispetto). La responsabilità giace in chi dovrebbe istruire ragazzi e ragazze su come funziona un computer, sugli infiniti mondi possibili che offre ma al tempo stesso sui pericoli che nasconde. La responsabilità, insomma, giace in chi è consapevole e che può esercitare una scelta. Persino in un ragazzo che ha appena letto questo articolo, che può scegliere se approfondire, darsi ad infiniti altri giochi o continuare perché lo sfizio personale supera il resto, conscio di cosa comporta sulla pelle degli altri e, sul lungo corso, sulla propria e di chi gli sta intorno. In altre parole, che piaccia o meno, chi prende consapevolmente certe decisioni è complice tanto quanto chi era solito prendere soldi dai nazisti 80 anni fa per guardare dall’altro lato – che nell’esempio attuale si traduce nell’avere un lavoro più retribuito in caso delle aziende o pensare prima al proprio divertimento nel caso dei giocatori. Ammettere il contrario e poi prendere parte alla Giornata della Memoria è pura dissonanza cognitiva.

Vogliamo infine sottolineare che a differenza di discorsi come “costruire alternative a social X”, qui non è richiesto partire da zero in una nicchia che quasi nessuno conosce (per esempio Mastodon e PeerTube al posto di Twitter e YouTube): ci sono infatti milioni di giochi fra i quali optare, e migliaia di compagnie per le quali lavorare. Dare il buon esempio si può, tanto che anche noi di Etica Digitale contribuiamo alla causa tramite il nostro server Minetest, al quale partecipiamo attivamente sia a livello grafico che di programmazione, nella speranza di un futuro migliore.


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COVID-19: come la censura e le sanzioni stanno uccidendo gli iraniani

Lo scorso novembre i rincari della benzina hanno portato gli iraniani in piazza a protestare: per sedare la rivolta l’Iran riuscì a staccare il 95% di internet per alcuni giorni. Nel 2009 invece, a causa delle proteste nate dopo le presidenziali, fu tagliato l’accesso a siti come Twitter e Facebook, ancora oggi inaccessibili.

La censura in stati autoritari come l’Iran è di casa, tanto che nel 2011 fu avanzata per la prima volta la rete intranet Halal Net – ovvero un internet locale, in questo caso controllato dal governo. Internet viene infatti considerato uno strumento troppo prezioso per farne a meno, dacché alcuni stati come l’Iran, la Russia, la Corea del Nord e la Cina hanno puntato a tamponare il problema creando una rete tutta loro (in Corea del Nord e in Cina sono già attive e prendono il nome rispettivamente di Kwangmyong e Grande Muraglia Digitale). Ad aggiungersi a ciò si ha un quadro geopolitico fatto di sanzioni nei confronti dell’Iran da parte degli Stati Uniti, interrotte nel 2015 ma ripristinate nel 2018 quando il presidente americano Trump aveva sostenuto di avere le prove – mai dimostrate – che l’Iran avesse violato l’accordo sul nucleare.

L’arrivo del COVID-19 in un paese in simili condizioni non ha portato nulla di buono: partendo dalle sanzioni, una cosa che noi diamo per scontata come la mappa dei contagi della Johns Hopkins che appare ogni giorno sui notiziari e che è accessibile da chiunque per vedere qual è la situazione globale, non è invece accessibile nel paese; questo perché la mappa è sviluppata da Esri, una compagnia californiana che, a causa delle sanzioni, viene bloccata automaticamente in Iran. Il presidente del National Iranian American Council, Jamal Abdi, descrive le sanzioni come pressanti, accusandole di limitare da anni l’approvvigionamento alle risorse sanitarie (risorse che oggi servono più che mai). Questi comportamenti, continua, non hanno portato la gente a chinare la testa, bensì hanno portato il governo iraniano a esercitare maggiore repressione, paranoia e sotterfugi per spingere la linea dura.

Così facendo, la narrazione dello stato come forte e indipendente porta a minimizzare i problemi interni, e a silenziarli quando possibile. È questo infatti quello che è successo con i contagi del COVID-19, con un approccio simile al dottore Li Wenliang di Wuhan, che fu ammonito per diffondere il falso (che non esisteva un nuovo virus) finché non fu più possibile trattenere la notizia.

Stando a un medico informatore, il 22 febbraio le forze armate dell’Islamic Revolutionary Guards Corp hanno proibito a dei medici iraniani di diffondere i dati riguardo il virus, minacciandoli. Nel frattempo il governo aveva istituito una centrale di disinformazione che ha portato a decine di arresti, mentre il Ministro della Salute Iraj Harichi dichiarava che la quarantena è una misura da età della pietra – quest’ultimo è risultato positivo il giorno dopo. La disinformazione effettivamente non si è fatta mancare, ma è difficile comprendere in un governo autoritario quanto il concetto di disinformazione sia stabile o, al contrario, venga piegato da chi sta al potere per silenziare opinioni scomode.

Un esempio pratico lo si trova nella notte a cavallo tra il 2 e il 3 marzo. Nella città di Qom, origine del focolaio, era morto da poco uno dei consiglieri personali dell’ayatollah Khamenei – la guida religiosa dell’Iran. Per sedare eventuali proteste e contatti con l’esterno, la versione di Wikipedia in lingua farsi non è risultata accessibile da computer per 24 ore (si ipotizza una svista per non aver bloccato anche quella via telefono), mentre svariati operatori telefonici sono stati disconnessi per circa un’ora nella notte. Al sorgere del sole l’ayatollah Khamenei ha poi tranquillizzato la popolazione, dicendo che il nuovo coronavirus non è “questo gran problema” e invitando i cittadini alla preghiera in quanto “pregare può risolvere molti problemi”.

Sempre nella stessa giornata, i telefoni degli iraniani sono stati raggiunti da una notifica che li invitava a scaricare un’app per illustrare le probabilità di aver contratto il COVID-19. L’app pone domande sulla vita della persona per capire, per esempio, con quanta gente è entrata in contatto di recente. Tuttavia, Nariman Gharib, un ricercatore di sicurezza iracheno residente a Londra, ha analizzato l’app e ha scoperto che tra i suoi componenti ce n’è uno per monitorare la posizione GPS. Questo componente – il termine tecnico è “libreria” – è lo stesso che viene usato dalle applicazioni di fitness per capire esattamente di quanto ci si sta muovendo. Il sospetto è quindi che questi dati – il sondaggio e gli spostamenti – vengano collezionati dal governo per stringere ulteriormente la presa al comando. A calcare l’ipotesi ci pensa la casa produttrice dell’applicazione: la Sarzamin Housmand, precedentemente Smart Land Strategy, nonché colei che nel 2018 creò una versione filogovernativa dell’app di messaggistica Telegram, dopo che l’Iran bandì l’uso di quella ufficiale. Nel frattempo Google ha rimosso l’app, chiamata AC19, dal Play Store con l’accusa di spionaggio e tracciamento dei dissidenti, come fece con i cloni di Telegram al tempo.

Per quanto riguarda invece la comunicazione dei dati, sono molteplici le fonti e le stime che sostengono che l’Iran stia comunicando dati notevolmente più bassi dei reali. Sui social network si vedono infatti reportage di locali con sacchi di cadaveri negli ospedali, persone avvolte in tute anticontagio che seppelliscono bare e, da satellite, cimiteri inutilizzati fino ad ottobre dell’anno scorso che hanno iniziato a riempirsi tutto d’un colpo. Il futuro infine non prospetta nulla di buono, in quanto il 21 marzo prenderà piede il Nowrūz, la festa nazionale che in Iran viene considerata importante tanto quanto il Natale da noi. Un utente su Reddit la descrive come un insieme di baci, abbracci, visite e stuzzichini, spiegando che la nonna media iraniana si metterà a piangere se dovessero vietarle ciò, iniziando a farsi compatire dagli altri che, essendo un popolo di fatalisti, avrebbero non pochi problemi morali nel decidere se assecondarla o meno.

La situazione in Iran è, insomma, allarmante. Per quanto il paese abbia proposto misure come 100GB di internet gratuito e abbia disposto soldati per le strade, i cittadini rimangono tagliati fuori dal mondo, pressati esternamente dalle sanzioni americane e internamente da un governo che non vuole allentare la presa. Bisognerebbe tuttavia ricordare ad entrambe le parti che il COVID-19 non prende posizioni di partito e non danneggia solo i più deboli; che questi giochi di potere in una condizione simile sono come un boomerang, che può tornare in faccia a tutti quanti. E che rendere le persone consapevoli di quello che succede è il primo passo per capire come muoversi efficacemente.

Foto in anteprima: Motjaba Mosayebzadeh su Unsplash


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