24 ottobre 2018: “L’anonimato nell’espressione del pensiero infatti ha ragione di esistere nei regimi illiberali, non certo in uno Stato democratico dove è la norma fondante stessa a garantire la libera espressione del pensiero con ogni mezzo”. Secondo il senatore Cangini, che insieme ad altri nomi come Bernini e Pagano depose la proposta di legge da cui è presa la citazione, l’anonimato non è concepibile in una democrazia. Dopo la morte di una ragazzina per aver sentito di una challenge su TikTok, qualche settimana fa il senatore è tornato a farsi sentire sui temi digitali, questa volta insieme a politici appartenenti ai partiti più disparati di maggioranza: adottare l’autenticazione via SPID sui social per proteggere i minori.
Da persone che si occupano quotidianamente di questi temi, siamo stanchi. Siamo stanchi di queste sparate che lasciano intendere la mancanza più totale di consapevolezza su come funzioni la rete. E avremmo lasciato perdere, se non fosse che a questo giro l’opinione pubblica non ha avuto molto da dire in contrario – a differenza di quello che successe a Marattin due anni fa quando ci provò con la carta d’identità. Ed è per questo che abbiamo deciso di dire basta, insieme.
#SocialSìCretiniNo è la campagna che, partendo dalla proposta dello SPID sui social e dimostrandone l’impraticabilità (con tanto di esempi pratici rifacendosi alla storia contemporanea), dice no a queste figure che parlano di cose che non conoscono per arrivare alla pancia delle persone. Insieme a LeAlternative, PeaceLink e vari collaboratori esterni, abbiamo creato un sito che narra su più piani di comunicazione – uno leggero a fumetti, in pixel art, e un altro più nel dettaglio, per iscritto – perché approcci del genere sono ingenui, controproducenti, se non addirittura pericolosi. Infine, SocialSìCretiniNo chiede una svolta significativa nell’approccio al digitale: una responsabilizzazione da parte dello Stato (che invece cerca di scaricare sulle singole famiglie), invitiando a educare piuttosto che di proibire e spaventare. E da qui, appunto, il titolo.
È difficile parlare di digitale quando la percezione che se ne ha è limitata a quelle poche azioni quotidiane, tra e-mail, messaggi, serie TV e qualche videogioco. Eppure è strano, perché è tutto attorno a noi: come è possibile sapere così poco di una dimensione così legata alle nostre vite? Non c’è cosa che facciamo che non passi per il digitale, dove ci giriamo, giriamo, ne parlano, talvolta lo ritraggono come se fosse panacea, le aziende più ricche al mondo mai esistite sono appunto digitali (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), ma… sapremmo spiegarlo e guardarlo con occhio critico? Distinguere un impiego buono da uno cattivo, mettere in discussione ciò che ci circonda?
È con questa premessa che Etica Digitale dà il via ad un circolo di lettura online, dove chiunque è il benvenuto: dove meno sapete, meglio è. Dove l’inclusività (e non lo sciorinare termini tecnici e inglesismi come se piovesse) è il fattore chiave. E la voglia di leggere, per poi confrontarsi.
Il tema del primo incontro? Come e quanto aziende come Facebook e giochi come Pokémon Go possano influenzare inconsapevolmente il nostro comportamento… E saranno loro stesse a dircelo!
Nove mesi fa, quando iniziò la pandemia e ci trovammo tutti reclusi in casa, Etica Digitale scrisse un articolo in collaborazione con LeAlternative parlando di strumenti etici per lavoro e scuola da remoto, consci del fatto che in questo periodo le persone si sarebbero trovate a passare gran parte della giornata davanti al computer. Al tempo erano già molte le università e le aziende che avevano adottato strumenti come Zoom, Microsoft Teams o Google Meet, tutti non rispettosi della privacy – Zoom in testa mentre veniva travolto da uno scandalo dopo l’altro.
A maggio, proprio all’apice di questi scandali, documentammo una segnalazione ricevuta riguardante il CISIA – l’organo che si occupa di gran parte dei test d’ingresso universitari – e di come stesse preparando i suoi test per l’appunto su Zoom, richiedendo velocità di connessione che non tutti possono permettersi o che, semplicemente, non possono fisicamente raggiungere a causa di infrastrutture vecchie e fatiscenti, se non spesso completamente mancanti. Ricordiamo infatti che l’obbligo di connessione, tanto meno in banda larga, non è ancora scritto nella nostra Costituzione.
Infine, a luglio, le segnalazioni si moltiplicarono, passando dall’Accademia di Brera sino a La Sapienza di Roma, dacché decidemmo di ritrarre in toto la situazione italiana. Anche allora, come agli inizi di marzo, studenti e insegnanti furono costretti a scegliere tra il diritto allo studio e quello alla privacy, dove paradossalmente l’unica preside che ascoltò il Garante e che si rifiutò di usare la suite Google fu linciata sia a livello mediatico che legalmente dai genitori degli alunni, come dall’assessore all’istruzione comunale. E proprio da quel luglio vogliamo riprendere la narrazione.
Qualche giorno prima dell’ultimo articolo, il professore Angelo Raffaele Meo inviò una lettera aperta alla Ministra dell’Istruzione Azzolina, richiedendo di adottare software liberi nella Pubblica Amministrazione al posto di quelli proprietari. Un software libero è un programma che, tra le sue proprietà, dice da cima a fondo come funziona perché l’accesso al suo codice è – per l’appunto – libero. Se raccoglie dati, lo sapremo. Se è scritto bene, lo sapremo. E via dicendo. Al contrario, programmi come Microsoft Teams celano il loro funzionamento e raccolgono un quantitativo immane di dati non necessari, che usano per tramutare in profitto. Un’ulteriore richiesta del professore fu quella di utilizzare formati standard per i documenti, ovvero che un documento debba poter essere aperto da più programmi senza ostacoli di alcuna natura: questo è fondamentale per garantire la libertà agli individui di scegliere il programma che preferiscono senza avere problemi di incompatibilità. Altra mancanza dei prodotti Microsoft, al fine di rendere i propri utenti dipendenti dai loro strumenti – in primis Windows.
La lettera, neanche a dirlo, è caduta nel vuoto: negli stessi giorni infatti la Ministra Azzolina aveva ultimato il passaggio di 30mila caselle della scuola a Microsoft Teams, vendendola come un’azione positiva perché “avrete una casella molto più capiente” con “la possibilità di utilizzare tutto il set di ulteriori applicazioni previste dalla Suite Office 365, in particolare per quanto riguarda la collaborazione tra uffici”. In altre parole, il ministero si stava complimentando di aver reso l’ecosistema scolastico ancora più dipendente da un monopolio informatico, noto per mercificare i comportamenti delle persone (in questo caso del personale scolastico). Accurata l’osservazione di Wikimedia Italia, che fece notare come la Germania dall’anno scorso avesse rimosso la sopracitata Suite Office 365 di Microsoft dalla Pubblica Amministrazione optando per strumenti liberi, mentre noi, con un anno in ritardo affondavamo ulteriormente nella sua rete.
Sempre a luglio risale l’imposizione di strumenti Microsoft a Bolzano. Quello che all’apparenza può sembrare “solo” l’ennesimo declino dettato da un’arretratezza culturale e una visione aziendale della scuola è in verità molto peggio: per quindici anni infatti, Bolzano è stata città d’avanguardia del software libero grazie ai ragazzi del progetto FUSS (Free Upgrade for a digitally Sustainable School, Sistema Libero per una Scuola digitalmente Sostenibile). Il FUSS forniva agli studenti della provincia di Bolzano (e ad altri due licei italiani: uno a Jesolo e uno a Firenze) degli strumenti liberi e indipendenti da qualsivoglia azienda, ma dopo 15 anni l’assessore provinciale alla scuola e cultura italiana ha optato a ottobre 2019 per passare a Microsoft. A poco sono servite le proteste del consigliere Diego Nicolini, che fece notare come la città, oltre ad aver mantenuto la sua indipendenza, aveva risparmiato quasi €2.000.000 grazie al FUSS: “Questo investimento ha creato una ricchezza per la nostra Provincia che rimane al territorio e ai cittadini. Se questi soldi si fossero spesi acquistando delle licenze non avremmo prodotto valore per il nostro territorio”. Inutili anche le parole del Ministro dell’Innovazione Paola Pisano che lo ritenne un “esempio da seguire e non da terminare”. Passato qualche mese, e qualche altro tentativo del consigliere Nicolini che tirò in ballo anche la capacità del software libero di ridurre rifiuti tecnologici e di diminuire le diseguaglianze tra situazioni economiche differenti, lo schiaffo finale: ad aprile, a un mese dalla pandemia, nonché quando strumenti come quelli del FUSS erano più che mai richiesti, l’assessorato alla cultura di lingua italiana ne recise le gambe decidendo di chiudere definitivamente il progetto. Se non fosse stato per l’iniziativa Repubblica Digitale che ha tenuto in vita il FUSS facendolo entrare in Commissione Europea, a quest’ora il progetto non esisterebbe più.
In questi mesi, più docenti hanno manifestato il proprio dissenso verso la posizione della scuola, a partire dalla professoressa di filosofia dell’Università di Pisa Maria Chiara Pievatolo sino al docente di matematica Walter Vannini, più conosciuto per il suo podcast DataKnightmare. Prima di comprendere le loro critiche però, bisogna chiudere in un ultimo atto il mese di luglio: la sentenza Schrems II.
Schrems II
Con la sentenza Schrems II del 16 luglio 2020, la Corte di Giustizia Europea dichiara l’illiceità dei trasferimenti di dati negli Stati Uniti. In poche parole, la sentenza dice che si possono trasferire dati in paesi fuori dall’Unione solo e soltanto se quei paesi garantiscono una protezione dei dati equivalente alla nostra (il GDPR). Questo esclude gli Stati Uniti, in quanto alcune loro leggi permettono alle agenzie governative di accedere ai dati senza un mandato del giudice, rendendo la sorveglianza di massa una realtà. Come conseguenza, tutte le soluzioni giuridiche per trasferire dati negli USA sono, ad oggi, illegittime in assenza di misure di garanzia ulteriori. Tra le altre, è stato invalidato il Privacy Shield, ovvero l’accordo che escludeva gli Stati Uniti dal normale trattamento dei dati e che permetteva all’azienda statunitense di Tizio di importare dati senza porsi particolari problemi. Per quanto riguarda le misure di garanzie ulteriori, sono possibili, ma ad oggi è molto complesso, dal punto di vista giuridico, individuare in modo preciso quali siano e, dal punto di vista tecnico, implementarle. Quindi, è bene diffidare di tutti i trasferimenti di dati verso gli USA.
Cosa cambia quindi per la scuola italiana? Cambia che – in forza del GDPR – le scuole devono essere in grado di dimostrare la sicurezza dei dati degli studenti e molte big tech (Google in primis, ma anche Microsoft) hanno sede legale e processano dati negli USA, dove è molto difficile, se non impossibile, assicurare un livello di sicurezza equivalente a quello europeo. Nonostante queste aziende abbiano delle sedi anche in paesi come l’Irlanda e i dati vengano inviati in queste ultime, è responsabilità della scuola assicurarsi che queste sedi non li rigirino poi in America. Operazioni simili, per intenderci, non vengono fatte neanche dalle grandi aziende; pensare che una scuola possa farle è oltre i limiti dell’assurdo. Detto in parole povere, le scuole che utilizzano questi strumenti stanno infrangendo la legge. Ovvero, pressoché tutta Italia.
Ad agosto la docente Pievatolo sottolineò come, ad un mese dalla sentenza, il Ministero dell’Istruzione continuasse a suggerire Microsoft e Google come strumenti per la didattica, senza il benché minimo accenno a piattaforme libere (come BigBlueButton). Ad oggi, quattro mesi dalla sua denuncia, la situazione è rimasta invariata.
È di ottobre invece la lettera aperta di Vannini indirizzata ai presidi, che ribadisce ancora una volta come non sia legale utilizzare certi strumenti e che far premere a qualche genitore “Acconsento” non li esuli in automatico da ogni responsabilità (né renda lo strumento legale come per magia). Vannini fa anche di più: in quanto esponente certificato del GDPR, aggiunge un file che qualsiasi genitore può compilare e inviare ai presidi. In sintesi, il file obbliga la scuola a chiarire il perché vengano utilizzate piattaforme USA non in linea con le leggi europee, pena un risarcimento in caso di mancata risposta. Di queste risposte ne abbiamo ottenute un paio (per motivi di privacy ed eventuali ritorsioni sugli alunni, abbiamo omesso i nomi).
La prima è di una scuola superiore di Padova dove il preside, oltre che a prendersi gioco dell’alunno in questione per aver dimenticato di compilare un punto, è convinto che la sede in Irlanda di Google li renda immuni al GDPR. La seconda è dell’Università di Milano, dove pensano la stessa cosa ma per quanto riguarda Zoom e Microsoft. Quest’ultimi aggiungono inoltre che “vista la natura dei dati che transita nelle piattaforme DAD, il rischio per i diritti e le libertà degli interessati è veramente basso per non dire inesistente” e che il Ministero non abbia dato linee precise perché “il tema è più che altro politico”.
A rincarare la dose ci pensa poi il Ministero dell’Istruzione che, a dicembre, ha inviato una circolare a tutte le scuole superiori italiane. La circolare ricorda come le assemblee di istituto siano un diritto e uno strumento fondamentale per il confronto tra i ragazzi, e che per garantirle in un periodo fragile come questo, provvederà a fornire licenze Microsoft Teams dove poterle svolgere.
Si potrebbe affermare a questo punto che del diritto alla privacy alle scuole e istituzioni associate non importi assolutamente nulla. Eppure, una ragazza di 13 anni è stata sospesa proprio per aver leso la privacy dei suoi compagni. Succede alla scuola media Nievo di Torino, dove Eva – questo il nome della ragazza – aveva deciso di protestare contro la DaD seguendo le lezioni davanti all’entrata della scuola. Supponendo che il motivo sia stato la possibilità che i passanti potessero vedere i suoi compagni tramite il tablet, esponendoli a occhi indiscreti, la scuola dimentica un dettaglio importante: che sta usando Google.
Infine, dato che gli scandali di Zoom non si sono placati, di recente è stato trovato uno scambio di documenti tra dirigenti cinesi e americani dell’azienda, dove i primi chiedevano ai secondi di censurare le manifestazioni del 4 giugno in Piazza Tian An Men 1989, pena la rimozione del servizio dalla Cina. Al quale i secondi non si sono opposti. È paradossale come un’azienda che mette i suoi scrupoli economici davanti ai diritti degli esseri umani sia la stessa utilizzata da un istituto di Padova per parlare proprio di diritti umani. E sempre a Padova, c’è chi, non accontentandosi del solo uso di Zoom, decide anche di pubblicare le proclamazioni di laurea su YouTube: succede al dipartimento di matematica Tullio Levi-Civita, che carica il video (guardalo proteggendo la tua privacy) e fa dirette su un’altra piattaforma non a norma di legge, incurante di condannare i laureandi a rimanere per sempre impressi sulla rete, con nome e cognome in chiaro.
Incontro per i diritti umani in un istituto di Padova, organizzato su Zoom. L’azienda ha dimostrato di lasciar correre certi argomenti in Cina pur di far soldi
Conclusione
Siamo davanti ad una scuola che, incurante di un diritto, forza le persone a prostituirsi per l’azienda col nome più scintillante in nome di un po’ di spazio in più nelle caselle mail – alle quali l’azienda può avere accesso. Una scuola che non solo permane nell’immobilismo più stantio da decenni, bensì che si occupa anche di tranciare accuratamente quelle gemme che da anni si impegnavano a farla fiorire. Scuola che, nonostante sia scritto nero su bianco che certe cose non si possono fare, se ne scrolla le spalle e, avvolgendosi in una spirale di parole, confida nella speranza che nessuno le capisca davvero, o che a nessuno importi. Un Ministero che per garantire un diritto, ne sacrifica un altro. E poco importa se non può farlo. Una scuola che sospende un’alunna per aver protestato pacificamente contro un sistema che la tiene lontana dai suoi compagni, ma che al tempo stesso acclama Greta per le proteste sul clima. Un paese di vecchi fatto per vecchi, al quale dell’istruzione non importa assolutamente nulla, benché meno della privacy, perlomeno non se queste non garantiscano qualche voto e titolo in più. Le fughe di cervelli, i tagli, il disinteresse generale: tutto questo provoca rabbia, certo, ma è paura quella che dovrebbe generare. Un paese senza cultura è un paese senza passato e di conseguenza senza identità. E quando queste cose miste all’istruzione vengono meno, gli spettri della storia tornano a regnare. Finché le politiche sull’istruzione saranno dettate da semplice utilitarismo perché “l’azienda X è più comoda” e faranno finta che le alternative non esistano – soprattutto senza degnarle di mezzo fondo o, come il portale del Ministero, senza nominarle affatto – la situazione non potrà che peggiorare. Certo, di tanto in tanto cambierà il paese per il quale battere, poco importa poi se non tiene in considerazione i diritti umani, ma il succo sarà sempre lo stesso.
Le persone al potere stanno giocando sulla pelle di chi rappresenta il loro stesso futuro, pensando che sporcarsi la bocca con paroloni come “rivoluzione digitale” possa cambiare magicamente le cose. Ne è un esempio la Senatrice Mantovani che di recente, ospite alla conferenza annuale di LibreItalia, ha sciorinato termini tecnici per autocomplimentarsi dell’app IO e dell’aumento di identità sociali. Quello che però ha omesso è che l’app IO è stata rilasciata senza essere in linea col GDPR (ironico, considerando che all’uscita di Immuni erano tutti paranoici nonostante rispettasse davvero la privacy, ma se si parla di un bonus da 150€ per pagare col bancomat e l’app invia dati fuori dall’Europa va tutto bene) e che le identità cartacee stanno scadendo e venendo sostituite obbligatoriamente da più di cinque anni da quelle elettroniche (i cui provider hanno protocolli non più sicuri in quanto vecchi o completamente assenti). Il tutto poi senza rispondere alle domande del pubblico, perché di fretta. Per quanto queste figure istituzionali – siano esse ministri o presidi – facciano finta di niente, la verità è che ci sarà da piangere quando il Garante inizierà ad obbligare le scuole a passare a strumenti idonei. Perché in quasi un anno nessuno si è davvero mosso per potenziare le infrastrutture, educare al digitale o prendersi quei 5 minuti per spiegare cosa sia il software libero e perché sia fondamentale per i diritti delle persone. Nessuno ha parlato di alternative come il FUSS o la più recente iorestoacasa.work che, grazie alla collaborazione di più associazioni in Italia, ha messo in piedi server ad accesso gratuito che utilizzano per l’appunto software libero.
La situazione è allarmante e sembra che ogni giorno ci si impegni per renderla peggiore. L’apprendimento, che nella sua vera natura dovrebbe essere disinteressato, è invece in mano a compagnie che mirano esclusivamente al profitto. Chi si ribella viene sbeffeggiato, ignorato o punito, e gli incontri per mettere in discussione un tal sistema sono ridotti a una nicchia ignorata che riesce comunque a diventare palco di autopacche sulla spalla del politico di turno, senza il benché minimo confronto. È ora che lo Stato e chi per esso si prenda le proprie responsabilità, senza far firmare circolari inutili ai genitori per farli acconsentire sul nulla. È ora che lo Stato, così affezionato al risparmio della spesa pubblica, realizzi che questi strumenti liberi fanno vincere entrambi: le proprie tasche, e la sfera privata di chi apprende. È ora che studenti ed insegnanti si organizzino insieme per far valere i propri diritti, che capiscano di non essere soli, che associazioni come Privacy Network esistono e che già da tempo affrontano queste battaglie tramite le loro conoscenze legali. È ora di capire che c’è una differenza tra lo scegliere di usare Instagram nel proprio privato, ed essere obbligati a usare Teams nell’ambito pubblico. È ora, insomma, di rifiutarsi di essere merce che rappresenta l’ultima ruota del carro, e di ricordarsi di essere persone. È ora, ora, di dire basta.
L’articolo è stato aggiornato in data 18/01/21, aggiungendo le scuole fuori Bolzano di cui si occupa il FUSS, correggendo chi ha interrotto il loro operato (l’assessore, non il sindaco), e illustrando meglio nel secondo paragrafo di Schrems II perché le scuole non stanno rispettando il GDPR
Nel suo saggio filosofico L’attentato, Manfred Schneider ripercorre il corso della storia per dare la definizione di “attentatore”, ma soprattutto per definire cosa sia la paranoia. Passando per personaggi come Giulio Cesare, Caligola, Napoleone, Nietzsche e Kennedy, il filosofo tedesco delinea le caratteristiche dell’attentatore occidentale, che siano le guardie che cercano di accoltellare un imperatore o un kamikaze dei giorni nostri. L’attentatore, dice Schneider, è un lupo solitario che, sentendosi impotente, combatte la sua crociata in solitudine. Il suo bersaglio non è tanto una persona specifica in quanto persona, bensì in quanto potere che essa rappresenta: Lincoln come simbolo di opposizione all’indipendenza sudista, Marat come personificazione della Legge dei sospetti francese del 1793, Warhol come simbolo della società patriarcale.
Dato che l’attentatore sa di essere molto piccolo rispetto al potere che vuole combattere, egli punta più sul lasciare un ricordo di sé nella speranza che altri possano destarsi e abbracciare la causa – o, in altre parole, punta a farsi martire. Questa cosa era risaputa già al tempo dei romani, e difatti la lex iulia aveva lo scopo di farne da deterrente. Essa, la lex iulia, era una legge che oltre a condannare gli attentatori, si assicurava anche di cancellarli dalla storia. Strappava loro, insomma, la speranza di essere ricordati. Al contrario, gli imperatori e i sovrani – che dovevano essere ricordati – e i nobili – che volevano essere ricordati –sono giunti a noi tramite gli scritti e le immagini: statue e dipinti di sé, città col proprio nome, monete col loro volto, palazzi a loro dedicati, odi, torri, mausolei; tutto in nome di un segno indelebile nella storia. Chi aveva il potere, in altre parole, poteva permettersi di rimanere nelle memorie dell’uomo.
Se ci si pensa bene, oggi l’essere umano non è poi così diverso da quello di un tempo. Grattacieli, loghi, filantropia, sono sempre un modo per attestare potere e/o un ricordo di sé. C’è una cosa, tuttavia, che non è rimasta la stessa: gli strumenti a disposizione. Le immagini, infatti, non sono più solo in mano ai potenti, perché moltissime persone al giorno d’oggi dispongono di una connessione internet, di un telefono, di un computer. Le immagini sono ora nelle mani di tutti, e alcune di esse stanno cambiando il mondo. Si pensi ad esempio alle proteste in America, a quei poliziotti che sono stati licenziati grazie a video girati da comuni cittadini che testimoniavano i loro abusi, o a chi rischia la vita andando in zone di guerra per mostrarne gli orrori. Questi strumenti, dunque, hanno progressivamente ridistribuito il potere in mano ai più, evitando di sentire solo la campana di chi ha maggiore influenza (anche se questo fenomeno non è affatto debellato).
Tra i più, tuttavia, vi rientrano anche individui come appunto i terroristi, ed è qui che il discorso inizia a diventare una lama a doppio taglio. Perché se si considera la società odierna come una “società del baccano”, dove chi fa più rumore riceve più attenzioni – distaccandosi dal costante brusio di sottofondo – i telegiornali, programmi televisivi e internet non diventano che una cassa di risonanza per gli attentatori, dando loro esattamente ciò che più desiderano: attenzioni. Registrare e caricare un video è infatti estremamente facile, avere un diario da condividere online anche, senza contare chi le stragi le ha raccontate facendo dirette su internet. Un esempio è il massacro islamofobo nelle due moschee di Christchurch, Nuova Zelanda, che nel 2019 vide la brutalità di un uomo uccidere 51 persone, sparando sulla folla, accanendosi sui feriti per eseguirli, e passando sui loro corpi mentre ascoltava canzoni. Il tutto in diretta Facebook. Altri attentatori odierni hanno invece sfruttato le immagini alle quali siamo abituati – per l’esattezza quelle da film Hollywoodiano – per raccontare le loro crociate come se fosse il grande schermo. Primi fra tutti i membri dell’ISIS, che tra le sue file vantava appunto ex produttori cinematografici per rendere il proprio messaggio più avvincente.
Ha senso, quindi, in questi casi, ristabilire una lex iulia?Se l’attentatore vuole attenzioni, che gli si stacchi la spina e che si finga che non esista: prima o poi smetterà. Tuttavia è ingenuo pensare che una cosa del genere accada oggi, dove i social come Facebook fanno spallucce alle dichiarazioni di un presidente che incita alla violenza, e dove “deresponsabilizzazione” sembra la parola più adatta a definire il mercato e il nostro stile di vita. Ma a prescindere da ciò, una nuova lex iulia non dovrebbe essere la risposta, perché non farebbe che fingere che il problema non esiste: se questi fenomeni ci sono, è dovere che se ne parli e che si rifletta sul perché ci sono. Altrimenti, con la stessa logica si potrebbe evitare di parlare dell’Olocausto, della caccia alle streghe e di qualsiasi altro aspetto che abbia infuso terrore e morte nella storia dell’uomo. Cosa fare dunque?
Ritornando alle immagini, Schneider mette ben in chiaro il ruolo dell’attentatore, definendolo “una variabile casuale come risposta al controllo”: quello che fa il terrorista, in altre parole, è ricordare al mondo che il controllo assoluto non esiste e che, pur nella sua impotenza, è in grado di dimostrarlo – che sia facendosi saltare in aria o accoltellando civili per strada. Quando quindi lo Stato promette una maggior sicurezza nazionale con una sorveglianza più attiva, paradossalmente non sta che carburando un possibile attentatore nel dimostrare che quel controllo non esiste. Nello specifico, quando lo Stato decide di installare più telecamere per il medesimo motivo, non sta che ampliando il palcoscenico del terrore. Questo perché, in primo luogo, non sono di certo le telecamere a fermare una persona che, immersa nella paranoia, vuole seminare caos per dimostrare di non essere impotente. E perché, in secondo luogo, le telecamere hanno in generale un impatto psicologico sulle persone, in quanto veicolano l’idea che bisogni sempre stare all’erta. Paradossalmente, questo fa il gioco del terrorista, dacché veicola lo stesso identico messaggio: dove avverrà il proprio attacco? dall’altra parte del mondo o sotto casa propria? E quando? Quella che si ottiene è dunque una spirale angosciante e senza fine, che il sociologo francese Baudrillard ben riassunse parlando dell’attentato alle Torri Gemelle: “Son loro che l’hanno fatto, ma noi che l’abbiamo voluto”. Il filosofo italiano Galimberti infatti, fa notare come questa repressione tramite la sorveglianza sia pericolosa tanto quanto il terrorismo, perché ci porta a diventare una società diffidente e fondamentalista; non una società che si basa sui perché e sull’esercizio della ragione, che indaga le cause con umanità per evitare che si ripetano, bensì una società egocentrica che si guarda costantemente alle spalle, che pensa di essere nel giusto e che debba proteggersi dal “nemico”, chiunque esso sia. Tuttavia, il mondo è molto più complicato di così. Come esercizio di empatia, ci si potrebbe infatti chiedere cosa pensarono i libici quando Hillary Clinton raccontò l’omicidio di Gheddafi con “siamo andati, abbiamo visto [la situazione], ed è morto” sghignazzando di gusto, cosa pensava il Vietnam quando l’America fece piovere napalm rovente su chi non concordasse con loro, o gli africani che a causa del colonialismo europeo sono stati separati dalle loro tribù per essere messi con altre a loro nemiche in stati tracciati col righello; o ancora chi si è ritrovato coinvolto nelle guerre per il petrolio in Medio Oriente. La concezione di terroristi, per queste persone, è molto diversa dalla nostra.
Al posto di innalzare barriere e punire tutti con della sorveglianza di massa – che a sua volta punisce psicologicamente, che spinge a sorvegliare di più, che punisce psicologicamente, e via all’infinito – forse si dovrebbe tornare ai perché di questi gesti. Per quanto riguarda gli attentati, Schneider ci dice che la maggior parte degli attentatori sono maschi che puntano a un nuovo potere o all’anarchia, mentre la più piccola controparte femminile punta a un ideale di pace. Tracciandone un profilo psicologico, il filo conduttore dell’attentatore occidentale pare essere la mancanza di una figura paterna come punto di riferimento, che porta più facilmente l’individuo alla paranoia nella ricerca di una costante nella sua vita. Semplificando il discorso, la mancanza di affetto in una società con radici patriarcali contribuisce a generare attentatori e morte.
Per quanto riguarda i terroristi che vengono “dall’esterno”, non è un segreto che lo stile di vita dell’Occidente sia responsabile della povertà e della sofferenza del mondo (basti vedere gli esempi citati precedentemente). In un mondo ideale e dotato di empatia, si potrebbe ovviare con non troppa difficoltà a questi problemi, ma l’astrazione, l’avarizia e la legge della giungla legittimate dal mercato tendono invece a farci fare spallucce perché “non dipende da me”, mai. Sempre per citare Galimberti, in questo caso il terrorismo quindi non è che un gesto di disperazione di un senza voce, schiacciato dallo sfruttamento per la ricchezza di qualcun altro, nonché dalle enormi diseguaglianze economiche che regolano il pianeta.
Riassumendo: più affetto, comprensione dell’altro e meno sfruttamento portano a un minor numero di attentati. Al contrario, una sorveglianza sempre più stringente a difesa di una diseguaglianza sempre più marcata non fa che peggiorare l’angoscia, la sofferenza e i morti sul lungo corso. Ancora una volta, dunque, non è la tecnologia la risposta ai nostri problemi. Non è da cercare “là fuori”, in qualche soluzione rapida e indolore che ci permetterà in men che non si dica di tornare alle nostre vite frenetiche. La risposta, per quanto banale, è dentro di noi. E richiede tempo, sforzi, responsabilità. Sta a noi, alla fine, decidere come vogliamo essere e che tipo di mondo vogliamo lasciare a chi verrà. Non alle cose.
Sarà capitato un po’ a tutti in questi mesi di sentir parlare di Immuni, l’app che in Italia ha lo scopo di tracciare i malati di COVID-19 nel pieno rispetto della privacy. Quello di cui invece si è sentito parlare meno è il lavoro che c’è stato dietro, tra ricercatori, attivisti, associazioni, politici e tanti altri, che hanno fatto in modo che il diritto alla privacy venisse messo al primo posto e che le informazioni venissero scambiate liberamente, in Italia come in altri paesi dell’Europa. Si tende a non fare caso a certi sforzi perché finché le cose vanno per il verso giusto, semplicemente non ci si pensa. È per questo motivo che abbiamo voluto fare un resoconto – probabilmente non esaustivo – di ciò che è accaduto in alcuni paesi, dove la privacy è passata in secondo piano e/o dove la censura (anche digitale) ha oscurato notizie chiave per la salute delle persone. Di quello che può succedere quando privacy e libertà d’informazione vengono meno.
Armenia
A fine marzo è stata varata una legge che obbliga i gestori telefonici a informare gli enti statali degli spostamenti dei singoli e del loro registro chiamate. Questi enti hanno anche accesso ai dati sanitari confidenziali dei pazienti e dei loro contatti, fino a fine pandemia.
Dei distretti hanno installato autonomamente telecamere all’interno di alcune abitazioni da febbraio, privando di intimità i residenti. C’è stato il tentativo di censurare la direttrice del dipartimento ospedaliero delle emergenze di Wuhan che era stata ammonita per denunciare il COVID-19, fallito grazie alle traduzioni creative di alcuni cinesi per evadere il sistema di censura nazionale cinese. Non è andata altrettanto bene a una coppia cinese, arrestata presumibilmente per aver pubblicato sul sito GitHub articoli censurati dal governo riguardo il virus. O a Li Wenliang, il medico che il virus lo ha scoperto, che era stato prima ammonito e poi reintegrato quando la notizia non era più contenibile – ora defunto. O ancora alla scomparsa nel nulla di Chen Qiushi, giornalista che documentava la situazione a Wuhan e che ha criticato pesantemente il governo con il suo emblematico video: “non ho paura neanche della morte, pensate abbia paura del Partito Comunista Cinese?”, pubblicato subito prima della scomparsa.
Anche le cifre del contagio risultano altamente inverosimili se comparate con quelle di tutto il resto del mondo: uno studio dichiara infatti che, solo nella provincia dell’Hubei (la più colpita, dove è situata Wuhan) gli ammalati dovrebbero essere circa 2,2 milioni, 30 volte in più delle cifre riportate dai media di propaganda cinese. Anche la metodologia adottata risulta incoerente con i numeri: da una parte Pechino dichiara di non aver avuto nuovi casi per 55 giorni, ma dall’altra parte ha impiegato misure “da tempi di guerra” al segnalare i 106 nuovi contagi al mercato di Xinfadi. Non è inoltre mai mancata occasione dei media locali per dare la colpa a chiunque non fosse la Cina stessa: l’Europa, la Russia, “gli stranieri”, o persino il salmone importato – e i pesci non possono contrarre il virus.
Corea del Sud
Nonostante dispongano di una legge per la privacy, le autorità pubbliche possono scavallarla per interessi pubblici (come la pandemia) dal 2015, quando scoppiò l’epidemia di MERS. I coreani sono tracciati usando persino i movimenti delle loro carte e le telecamere di sorveglianza, e parte del tracciamento è condiviso pubblicamente, come sesso, nazionalità, spostamenti ed età. Questo ha anche portato alcuni contagiati a essere stigmatizzati.
India
Il governo ha ordinato di monitorare gli impiegati con un’app a causa del COVID-19, senza che nessuno fosse a conoscenza del suo funzionamento. L’obbligo dell’app è stato poi ampliato in più campi, e quando son state trovate delle falle il governo se n’è lavato le mani.
Iran
Come già spiegato in un precedente articolo, le sanzioni americane hanno impedito di vedere la mappa dei contagi in primis. L’app per il COVID-19 è poi stata realizzata da un’agenizia filogovernativa e trovata a registrare anche il più piccolo movimento del GPS, senza che nessuno potesse sapere davvero come funzionasse. Non è mancata l’accusa di censura da parte di un medico informatore dove sarebbe stato proibito ai medici di diffondere i dati riguardo al virus, da parte dell’Islamic Revolutionary Guards Corp. E da satellite, sono inoltre state registrate immagini di cimiteri riempiti a velocità che non coincidevano coi numeri riportati.
Israele
Per monitorare i contagi, Israele ha usato gli strumenti dello Shin Bet – l’antiterrorismo del Paese – sui suoi stessi cittadini. Alla decisione di prolungare la sorveglianza, l’opposizione ha definito i metodi “da Corea del Nord”.
Montenegro
Il Corpo Internazionale di Coordinamento per le Malattie Infettive ha pubblicato su internet nome, cognome e comune di residenza dei singoli casi COVID-19.
Pakistan
I dettagli di tracciamento COVID-19 risultano non chiari, e sono in mano a un’agenzia che è stata più volte vittima di furti di dati.
Regno Unito
Il sistema sanitario nazionale ha scelto di collaborare con Palantir, una compagnia statunitense di big data per immagazzinare i dati sensibili dei cittadini, incluso il quadro clinico. Il contratto fu inizialmente di una sterlina, cosa che lasciò molte perplessità su come avrebbe guadagnato l’azienda, ed è stato rinnovato recentemente per altri 4 mesi al costo di 1 milione.
Immagine di copertina:realizzata da noi partendo da quelle di Brandon Holmes e visuals