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Data Ownership e libertà individuale: perché (s)vendere la propria privacy non è una soluzione

Il business dei big data è enorme. Secondo l’agenzia di cybersecurity dell’Unione Europea, i dati personali su internet valgono all’incirca 59 dollari a persona. Questa è soltanto una stima, calcolata in base alle entrate pubblicitarie online nel 2017 – in totale, oltre 200 miliardi di dollari. La frase “i dati sono il nuovo petrolio” è forse fuori luogo, ma non troppo. In fondo, l’espressione è stata usata da personaggi del calibro di Meglena Kuneva (commissario europeo per i consumatori, nel 2009) e Peter Sondergaard (vice-presidente senior di Gartner, 2011). E, come con il petrolio, si sono create strutture di potere per l’estrazione, elaborazione, e distribuzione dei dati personali.

La materia prima non viene estratta da falde sotterranee in pozzi o pompe; e non è nemmeno necessario invadere o fare pressione su paesi stranieri per avere accesso ai dati personali. La produzione di dati personali è molto più pacifica di quella del petrolio. Ma questa apparente stabilità è a lungo servita a nascondere il vero costo che paghiamo. Solo di recente – per esempio, a seguito degli scandali di Facebook e Cambridge Analytica – si è scoperto che il business dei dati personali non è soltanto enorme, ma anche invasivo. Il costo delle pubblicità ad-hoc, dell’intrattenimento personalizzato, addirittura del contatto con gli amici, è la nostra privacy. Se Facebook è gratuito, il motivo è che il prodotto sei tu.

Di recente, il problema della (mancanza di) privacy online si è fatto più pressante. Una soluzione interessante che è stata proposta da varie parti – dalle start-up alla politica, da musicisti ad imprenditori – è il concetto di “data ownership”, cioè di proprietà dei dati. Nei termini più semplici, il concetto di data ownership si basa sull’idea che se i dati personali hanno un valore così grande, allora sono le persone che generano tali dati a doverne beneficiare. Secondo il musicista ed imprenditore will.i.am, ricevere compenso per i propri dati personali è un primo passo per ridurre il divario tra individui e “monarchi dei dati. Un’app ha già iniziato ad offrire questa possibilità ai propri utenti. Killi vi offre la possibilità di guadagnare soldi se condividete i vostri dati personali. Per ora i guadagni sono minimi, ma i creatori assicurano che ciò cambierà non appena più aziende parteciperanno al progetto (per ora sono poche, e McDonald’s è l’unica di rilievo). Per assurdo, fare da tramite nel business dei dati privati è già diventato un business a sé. Ma anche a livello politico, qualcosa si sta muovendo. Un senatore statunitense per la Lousiana, John Kennedy, ha proposto un “Own Your Own Data Act 2019” che prevede che gli utenti di servizi digitali – in particolare di social network – abbiano proprietà esclusiva di, ed accesso diretto a, tutti i loro dati personali.

L’idea sembrerebbe interessante di per sé. Può essere letta come volontà di ridare agli individui un controllo più diretto sui loro dati personali. Purtroppo, non si tratta di una vera soluzione. Il concetto di data ownership si scontra nella realtà con problemi sia pratici, sia concettuali.

I dettagli delle proposte cambiano a seconda dei casi – alcune si limitano a richiedere che gli utenti possano scaricare i propri dati personali, altri prevedono compensi in denaro. Una proposta del governatore della California Gavin Newsome prevede addirittura che i profitti dei big data vengano “redistribuiti tra gli utenti”. Ma esiste comunque un problema, e cioè che i dati personali hanno un valore economico minimo per il proprietario. L’utente singolo se ne fa poco dei propri dati personali – hanno valore soltanto per aziende che li analizzano o rivendono. Se non vendi i tuoi dati, insomma, sono inutili.

Ciò non solo significa che il prezzo dei dati potrebbe addirittura diminuire, portando il valore per individui al di sotto dei 59 dollari. Ma significa anche che non vendere i propri dati è implicitamente scoraggiato. Se non hanno alcun valore economico se non in mano alle aziende, allora perché non vendere? Non è ovviamente una decisione obbligata, e probabilmente nemmeno saggia, ma è comunque verosimile.

Inoltre, l’idea di data ownership non è poi così rivoluzionaria. Almeno in Europa, la GDPR può essere vista come un primo passo verso il controllo diretto dei dati personali da parte di chi li produce. Secondo la direttiva europea, infatti, è importante assegnare un proprietario a tutti i dati personali. Ciò garantisce responsabilità, trasparenza, e qualità nel trattamento dei dati personali. Per la GDPR, non è necessariamente il soggetto stesso ad essere il proprietario dei dati personali, ma in pratica è spesso così. Oltre a ciò, solitamente chi è il soggetto di questi dati personali spesso ne è già il proprietario esplicito, non solo in Europa. Durante le sue udienze al senato statunitense, Mark Zuckerberg, AD di Facebook, ha più volte ribadito che “gli utenti sono i proprietari di tutti i loro contenuti”. Il problema, quindi, non è tanto “possedere i dati,” ma l’autonomia nel decidere a chi venderli. Tuttavia, possiamo veramente decidere di “vendere la nostra privacy”?

L’idea di data ownership rischia di ridefinire il concetto di privacy, trasformando un problema politico-sociale in un problema economico. Se consideriamo la privacy un problema di distribuzione di beni e servizi nella società, allora redistribuire questa ricchezza può essere una soluzione. Ma facendo così, la protezione dei dati personali cade – anche legalmente – nell’ambito dei diritti di proprietà. Invece, la privacy è una questione politica e sociale. Privacy è anche libertà, nel senso di libertà di agire liberamente senza essere sorvegliati. Come scrive Kevin Macnish, professore di etica e tecnologia dell’informazione, ogni tipo di osservazione digitale – che sia per fini di sorveglianza, di anti-terrorismo, o per semplice pubblicità – deve essere giustificata (The ethics of surveillance: an introduction). In questi casi, è sempre l’osservatore ad avere l’onere della prova. E questo perché il diritto alla privacy è un diritto umano – come conferma anche la dichiarazione universale dei diritti umani.

Se la privacy è un diritto umano fondamentale, come lo è la libertà, significa che è anche inalienabile. John Stuart Mill scriveva nel 1859 che la libertà è un diritto fondamentale di ogni essere umano. Se consideriamo la privacy un diritto fondamentale, allora è similmente inalienabile. Così come nessun uomo può “vendere la propria vita” e rendersi schiavo, nessun uomo libero può svendere la propria privacy. Perché in entrambi casi starebbe vendendo la sua libertà.

Internazionale a Ferrara 2019 – Sakawa

Sakawa: attività illegale ghanese che combina moderne frodi via internet con i rituali della tradizione africana.

Avete presente quei siti d’incontri con profili di belle ragazze dall’entità dubbia? Che cercano “l’amore”, il “principe azzurro” e a guardarle vi chiedete cosa ci facciano esattamente su un sito del genere? Bene, è possibile che dietro a quello schermo non ci sia tanto la ragazza acqua e sapone delle foto, quanto un ghanese pronto a truffarvi. Un praticante di sakawa: di questo parla l’omonimo documentario di Ben Asamoah.

Asamoah ci avverte: non vuole che le sue riprese siano viste come gesto di condanna. Ci chiede di mettere da parte il moralista che è in noi, di comprendere che sono situazioni di vita differenti dalle nostre. E questo lo narra bene lungo il documentario, dove c’è chi cerca di mettere da parte i soldi per un passaporto con l’idea di aprire un’azienda agricola in Europa, mandare soldi alla famiglia, e infine riunirsi con loro. Come c’è al tempo stesso chi vive di questo business costruendosi vere e proprie villette, dando al massimo consigli agli altri su come truffare meglio. In alcuni casi invece il sakawa diventa l’unico modo per sostentarsi.

Il documentario parte dalle discariche africane, quelle dove finiscono i vecchi pezzi di computer che per noi sono passati di moda. Si rimedia qualche PC, qualche caricatore, qualche pezzo di ricambio, e si è pronti a partire. Talvolta si è fortunati e si rimedia un hard disk intero, contenente ancora le informazioni del vecchio proprietario che si è scordato di cancellare: foto, documenti, scorci di vita. Una miniera di informazioni.

La truffa solitamente funziona così: ci si iscrive a un sito per incontri (o su Facebook), ci si fa notare da più persone possibili, si messaggia, e infine si continua a chattare con chi se la beve. L’obiettivo ultimo è di chiedere soldi una volta che si è in confidenza, e questo succede dopo 1-2 settimane. L’estro creativo non manca: c’è chi scarica clip di ragazze da far partire nelle chiamate su Skype per dar l’idea che ci sia effettivamente una ragazza dall’altra parte (son comunque clip brevi dove poi fingono di aver problemi di linea e fan cadere la chiamata); c’è chi vende cellulari che modificano la voce per renderla femminile; e c’è chi invece il cellulare apposito non ce l’ha e… va in falsetto. L’aspetto del telefono è molto importante, perché ci spiegano che molte delle vittime vogliono semplicemente del sesso e questo porta i truffatori a dover fingere di star avendo rapporti via telefono.justify-textLa truffa solitamente funziona così: ci si iscrive a un sito per incontri (o su Facebook), ci si fa notare da più persone possibili, si messaggia, e infine si continua a chattare con chi se la beve. L’obiettivo ultimo è di chiedere soldi una volta che si è in confidenza, e questo succede dopo 1-2 settimane. L’estro creativo non manca: c’è chi scarica clip di ragazze da far partire nelle chiamate su Skype per dar l’idea che ci sia effettivamente una ragazza dall’altra parte (son comunque clip brevi dove poi fingono di aver problemi di linea e fan cadere la chiamata); c’è chi vende cellulari che modificano la voce per renderla femminile; e c’è chi invece il cellulare apposito non ce l’ha e… va in falsetto. L’aspetto del telefono è molto importante, perché ci spiegano che molte delle vittime vogliono semplicemente del sesso e questo porta i truffatori a dover fingere di star avendo rapporti via telefono.

Una cosa che colpisce è l’approccio alla religione: i santoni sembrano infatti essersi messi al passo coi tempi. Basta infatti portare un hard disk a uno di loro o la foto di un cliente per dar vita a un rituale per “spennare” la vittima. Tuttavia, non è solo la tradizione africana che emerge: seppur non con l’intento di maledire, tra le preghiere non mancano tracce di cristianesimo, dando vita quindi a una complessa miscela culturale.

In conclusione, il documentario si chiude sulle stesse discariche iniziali, tra uomini, bestiame e piccoli incendi tra la ferraglia. Una riflessione, forse, su come quello che buttiamo non sparisce magicamente nel nulla, ma grava poi sulle vite di altre persone e interi ecosistemi. Diventando anzi per loro la vita, un modo per restare a galla e che, quasi ironicamente, come un boomerang torna in faccia al primo mondo che tra quella ferraglia li ha sommersi. Con la differenza che a tornare non è tanto il boomerang, quanto giusto la punta.

Internazionale a Ferrara 2019 – Uscire dall’algoritmo

L’edizione 2019 del festival di Internazionale a Ferrara (4-5-6 ottobre) ha inaugurato i temi della tecnologia con Uscire dall’algoritmo, un evento molto particolare che ha visto coinvolti anche gli studenti del Liceo Classico Ariosto e del Liceo Scientifico Roiti di Ferrara. Particolare perché è stato un dialogare proprio tra i ragazzi, che hanno portato in scena degli sketch leggeri ma accurati sul tema dell’evento, e tre esperti con diverse visioni del problema: Chiara Montanari, ingegnere che passa per lavoro interi mesi in Antartide (in pieno whiteout) isolata dunque dalla frenesia del mondo; Francesco Morace, sociologo di Future Concept Lab per un approccio più umanistico; Maurizio Tesconi, ricercatore del Cnr, per un approccio invece più tecnico.

Iniziamo da ciò che ci ha colpito di più: il lavoro delle classi del liceo. Semplice, genuino e divertente, con i ragazzi che hanno dimostrato di saper anche giocare con i classici, adattandoli alla dipendenza quotidiana che è il cellulare. Ecco allora che Dante vaga per un “sito” oscuro, scortato da Virgilio che nell’ultimo girone trova Lucifero diventato algoritmo, con tante persone prostrate ai suoi piedi mentre sventolano like. Ecco che l’Infinito di Leopardi ripropone il telefono come “siepe che il guado esclude” (con un accompagnamento musicale dal vivo), metafora delle esperienze che ci perdiamo allo stare troppo su certi mezzi. Lo stesso messaggio ci viene poi proposto in un altro sketch dove la batteria consumata va a braccetto con le nostre energie che con essa si affievoliscono. E infine, una spiegazione di come la ricerca di un singolo libro con “Ok, Google” permetta una profilazione estesa.

La prima domanda che viene posta è se gli algoritmi siano davvero Satana. Morace inizia partendo dagli esordi della rete, spiegando che quello che si cercava non era altro che una seconda vita. Ognuno voleva essere qualcun altro (come su Second Life) o semplicemente più libero, ma oggigiorno ciò che importa è essere autentici, più se stessi. Profilare qualcuno diventa quindi una passeggiata, e più cose condividiamo, più rendiamo facile la vita all’algoritmo: Tesconi infatti cita uno studio del 2015 sui like di Facebook, dove al social bastano 10 like lasciati in giro per conoscerci quanto un collega e 300 per conoscerci di più del coniuge. Ma non è l’algoritmo diabolico in sé, commenta la Montanari, bensì l’uso che se ne fa. E d’altronde è vero, perché un algoritmo non è altro che un insieme di istruzioni da eseguire in ordine. Può quindi “tentare” nell’uso errato che se ne fa, conclude Morace, ma non è in sé il diavolo.

Si passa poi al naufragare “nell’algoritmo” (leggersi più come profilazione, che è una delle possibili cose che può fare un algoritmo). Morace cita Aristotele, secondo il quale la conoscenza deriva da ciò che ci meraviglia: se è una macchina a dirci cosa guardare, cosa fare, cosa scoprire, la meraviglia cessa di esistere. “Il piacere” dice “sta nel disegnare le mappe, non nel farci guidare”. Si può poi naufragare in un mare di troppi contenuti, spiega Tesconi, rischiando di portare alla paura del Missing Out, del perdersi le cose. Ma è bello perdersi le cose, ribadisce la Montanari, perché non siamo fatti solo di pensieri da iperstimolare, ma siamo anche carne.

Dov’è quindi il problema? Morace lo dice, siamo animali sociali, siamo dotati di neuroni specchio. Ipotizza di trovare un argine sociale, e ha ragione, ma bisogna comunque ricordarsi delle sue parole: che fin dagli albori della rete volevamo essere qualcuno, protagonisti. Possibilmente, aggiungiamo, una versione migliore di sé. Questo vuol dire che rimosso Facebook ci sarà un altro social network, e un altro, e un altro ancora. E se non sarà un social, sarà un videogioco dove “possiamo salvare il mondo”, vivere le nostre avventure virtuali, poco cambia. Rimane un problema sociale complesso.

Chiudiamo l’articolo invitando a una riflessione: se qualcosa è sbagliato (certi tipi di algoritmi), perché capire come non venirne tentati singolarmente quando si potrebbe semplicemente bandirlo? Forse non è questione di uscire dall’algoritmo, ma di non farlo esistere in primis.

Chi guarda i guardiani? Tutti

Avete mai fatto caso a quante telecamere incrociate in media ogni giorno? Sul bus, sulle strade, nelle scuole, negli uffici, nei parchi, nella tromba delle scale. Potreste per esempio pensare che siano necessarie, perché rendono la città più sicura. Ma cosa succede quando la telecamera e la sua sicurezza diventano accessibili a tutti? Cosa succede se, per esempio in un negozio, sono gli altri a monitorare a insaputa il negoziante e i clienti? Succede che si finisce su insecam.org, il sito contenente più di 9000 telecamere “violate” sparse per il mondo; messe a disposizione di tutti.

“Hacker” uno dirà. Ed è qui che si sbaglia: le telecamere non sono state hackerate. Le telecamere, tutte connesse a internet, semplicemente non hanno una password. E qualcuno le ha trovate. Per capirci: se non metteste una password al telefono e qualcuno si facesse gli affari vostri, non ha violato nessun sistema informatico. Perché non c’era niente da violare.

L’Italia è il terzo paese per telecamere non protette (~900), seguito da Giappone (~1900) e Stati Uniti (~4000). Questo è conseguenza di un’ignoranza tecnologica nel nostro paese. E chiariamo, non vale solo per le telecamere, perché potremmo fare una corposa lista su sistemi informatici discutibili, in primis i computer che girano con Windows XP (che non ha più l’assistenza) nelle sedi comunali e provinciali sparse per l’Italia. Quei computer che maneggiano dati di milioni di cittadini, per intenderci, con personale spesso inconsapevole dei rischi. E non è neanche problema di soldi per le licenze, dato che sistemi informatici completamente gratuiti e molto più personalizzabili esistono da decenni (Linux).

Su Insecam troviamo di ogni: telecamere in dei bar, in pompe di benzina, persino dentro a degli appartamenti. E rintracciare qualcuno diventa un gioco da ragazzi: si può per esempio prendere la targa del malcapitato in una pompa di benzina, identificare il proprietario tramite Visura e il gioco è fatto. Qual è, tuttavia, il problema di fondo di tutto ciò? Certo, le password, ma quelle sono la conseguenza dell’ignoranza di chi la telecamera la installa o di chi se la fa installare. La domanda è, cosa ci porta a correre ai ripari installando sempre più telecamere? Qual è il vero pericolo?

A livello di rischi per la nostra incolumità, siamo ai minimi storici di reati perpetrati e non vediamo un attacco terroristico dal 2009. E non era un attentato di matrice islamica, bensì anarchica contro la Bocconi di Milano. Paradossalmente, siamo così senza ritegno da farci gli “attentati” da soli: come il petardo in Piazza San Carlo a Torino durante la Champions con più di 1500 feriti o lo spray al peperoncino in discoteca a Corinaldo che causò 6 morti. Eppure, nonostante questi minimi storici, la percezione di pericolo aumenta. Un articolo di The Vision indaga i canali d’informazione, facendo notare che “i telegiornali italiani trattano la cronaca nera più del triplo rispetto ai colleghi britannici e spagnoli”. A peggiorare il tutto, “secondo lo studio Piaac, in Italia il 28% della popolazione adulta è “incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità””. E questo fenomeno non è recente, perché anche nel 2010 la solfa era la medesima. Uno studio dell’American Economic Review sottolinea invece come Mediaset abbia favorito i populismi attuali tramite una povertà di pensiero, indotta da programmi molto all’insegna dell’intrattenimento e poco a quello della conoscenza.

Se il sonno della ragione genera mostri, tramutare l’ignoranza in paura è dunque il prossimo passo. Ma per farlo, bisogna prima separare ulteriormente le persone: e questo non è stato opera di un telegiornale, di un politico, di un santone o chicchessia. Questo è semplicemente successo. Per l’esattezza stiamo parlando di quando internet è arrivato alle masse, quando nerd ha smesso di essere sinonimo di sfigato, e quando i nostri genitori da totali eretici tecnologici hanno iniziato a giostrarsi ogni giorno tra i vari social, Facebook in primis. Essere isolati non era più un fenomeno di nicchia di qualche ragazzino con i brufoli, essere isolati era il fenomeno. E a rincarare la dose ci hanno pensato proprio quegli strumenti di uso quotidiano sul nostro cellulare come Google e il già citato Facebook, imparando a conoscerci meglio e spacciandoci realtà soggettive nelle nostre home come realtà oggettive. Polarizzati, nelle nostre già ignoranti convinzioni.

Una volta che la costante per socializzare era diventata l’isolarsi dagli altri per entrare nello schermo del nostro telefono, la strada per chi voleva influenzarci è stata semplice: in tutto il mondo sono arrivate agende politiche che hanno dipinto il prossimo come un criminale (nord, sud, est, ovest, la regione confinante, il vostro vicino, poco cambia), che hanno strumentalizzato bambini per far leva sugli istinti più primordiali, e che, al posto di discutere a fondo il problema, hanno iniziato ad abbattere il dialogo edificando muri. Ma questo, attenzione, è successo perché i primi ad abbattere il dialogo ed edificare muri eravamo noi, proprio dai nostri cellulari. Noi, e l’ingenuità verso le grandi corporazioni che, considerate quasi buone amiche, volevano alla fin fine solo capitalizzare di più.

Ed ecco che questo barricarsi, risultato di un mantra apocalittico propinato quotidianamente, si converte poi dal macro al micro: non mi fido “degli altri”, guardo con sospetto chi mi si siede di fianco, voglio che mio figlio sia sempre monitorato. Ed ecco che allora le telecamere per ogni dove ci fanno sentire più sicuri, perché qualcuno (che non è una divinità, bensì un impiegato della sicurezza o un algoritmo che fa il lavoro per lui) veglia su di me, o sulle persone a cui tengo di più. Non abbiamo tempo di valutare davvero i pro e i contro, perché quando si è impauriti non si pensa. Se vediamo 8 telecamere su un bus, semplicemente non ci pensiamo, pensiamo sia normale. Ci autoconvinciamo che siano sistemi inviolabili, che nessuno potrebbe mai pensare di usarli per suoi scopi personali. Perché sennò le nostre illusioni crollerebbero come castelli di carta, e le paure ci soffocherebbero ulteriormente. Devono essere la soluzione giusta.

Il problema di queste sicurezze, come spiega Galimberti nel suo “I miti del nostro tempo”, è che diventano una spirale ossessiva, dove non siamo mai abbastanza al sicuro. E man mano che barattiamo libertà e felicità per un po’ più di sicurezza, il senso di solitudine e diffidenza si fanno sempre più largo nella nostra psiche; e così ci attanagliano, in un ciclo senza fine. Che, prima ancora del decantato terrorismo, ciò che ci ucciderà sarà proprio quella diffidenza.

In questo caso ad ucciderci potrebbe essere l’angoscia: abbiamo appena visto un sito che dimostra come l’incompetenza possa mettere a rischio milioni di persone in tutto il mondo. In questa spirale ossessiva potremmo quindi pensare “chi mi assicura che le telecamere dei luoghi che frequento ogni giorno non siano state bucate? Il fatto che non siano pubblicate online, non vuol dire che non sia possibile bucarle”. È per questo che non vogliamo scrivere un articolo tecnico, nessuna guida su come rendere la tua telecamera più sicura (che può comunque portare al pensiero ossessivo “ma è abbastanza sicura?”). Anche perché ci ha già pensato l’ultimo numero di Hacker Journal, il mensile sul mondo dell’hacking che ha dedicato la copertina proprio alle telecamere connesse a internet.

Quello invece sul quale vorremmo far riflettere è il rovescio della medaglia. Ovvero di come, ormai succubi della tecnologia tanto da sembrare fanatici religiosi, siamo diventati più fragili. Come però delegare a Dio non salvava dalle carestie, delegare alla tecnologia non ci salverà dai problemi del mondo, che siano fisici o del nostro animo. Siamo noi umani, col pensiero critico, col metterci in discussione, con un utilizzo corretto degli strumenti, che possiamo risolvere quei problemi. Come ovviamente possiamo anche crearne di nuovi con un uso sbagliato. Basta pensare a una calcolatrice: è molto utile per fare calcoli con grandi numeri, ma diventa dannosa se data ai bambini per fare le verifiche di matematica; perché il cervello non apprende a fare i calcoli, perché delega alla macchina. E cosa stiamo delegando noi alla macchina se non la nostra libertà per l’idea di una sicurezza indotta da un analfabetismo funzionale di fondo, paure mediatiche, algoritmi insensibili e agende politiche?

Finché non porteremo questi argomenti nelle discussioni di ogni giorno, finché continueremo a far finta che sia tutto rosa e fiori e per il nostro bene, che stati come la Cina e gli Stati Uniti non stiano sfruttando proprio strumenti come le telecamere per monitorare i loro stessi cittadini (come il Sistema di Credito Sociale cinese per stabilire cosa sia giusto e cosa no, o le falle delle smart TV sfruttate nel 2017 dalla CIA per spiare la gente nelle proprie case), allora tutto questo servirà a poco. E le ansie si impossesseranno sempre più di noi. E acquisteremo l’ennesimo apparecchio smart connesso a internet e dotato di microfono per sentirci al passo coi tempi, incuranti dei rischi che può portare. Fin quando almeno quell’apparecchio non risulterà bucabile (e nulla è sicuro al 100%), o l’azienda che l’ha prodotto non risulterà invischiata in piani di sorveglianza (come Amazon e la sua compagnia Ring). Sempre, ovviamente, se la notizia raggiungerà i canali d’informazione (che abbiamo visto sì marciare sulle disgrazie, ma che su quelle tecnologiche fanno spesso orecchie da mercante) e se non saremo ormai già così dipendenti, giustificandoci con: “ma non ho nulla da nascondere”. Dimenticandoci che non sono i nostri “segreti” a essere rivelati, ma la nostra dignità ad essere spogliata, le nostre sfaccettature che diventano un semplice numero agli occhi di un’intelligenza artificiale, un freddo omino su uno schermo ignaro di essere monitorato. Che diventa un noioso passatempo di pochi, o in questo caso di tutti.

Cosa fare quindi? Intanto, se riconoscete uno dei posti elencati (città in ordine alfabetico) e sono luoghi appartenenti a privati, fatelo presente al proprietario e ditegli di mettere perlomeno una password se vuole tenere la telecamera. In alternativa, fatelo presente alle forze dell’ordine.

Sul lungo corso, invece, provate a riflettere su come vi sentireste se ci foste voi (ed è probabile che ci siate finiti) o una persona per voi importante dall’altro lato. Cosa provereste a diventare voi il freddo omino senza valore, dimenticabile ma sempre tracciabile, diventato un numero? Vedere voi e i vostri cari spogliati del lato umano, diventare intrattenimento come un film muto per chi, per cosa? Per proteggere cosa esattamente, da chi, perché? Quale il guadagno e quale il prezzo?

Se vogliamo capire queste cose, dobbiamo tornare, per il nostro bene, a parlare e parlarne con le persone. Ma non attraverso uno schermo, col rischio di ricadere vittime degli stessi algoritmi che ci hanno separato, bensì faccia a faccia. Perché alla fine della giornata non sarà un’assistente vocale a farci stare meglio e non sarà mettersi su un piedistallo circondati da follower a farci sentire meno soli, perché gli unici sul piedistallo saremo comunque sempre e solo noi. Non sarà dell’ironia sotto forma di meme a frenare la depressione in aumento, e non sarà il chiudersi in casa in un harem di telecamere, col rischio che si tramuti in una diretta pubblica, a farci sentire più sicuri. Forse può sembrare una lista di problemi a caso, ma basta indagare un po’ a fondo per trovare nell’isolamento, lo stesso discusso poc’anzi, il minimo comune denominatore.

Proviamo invece, per esempio, a contare quante telecamere incrociamo nella nostra routine. Chiediamoci se siano tutte necessarie, quale sia la loro funzione. Iniziamo a considerare meno lo strumento nelle nostre tasche, a scordarci a piccoli passi dell’impero digitale che occupa quasi metà delle nostre singole giornate. A ricordarci che una voce l’abbiamo, che cambiare si può, e che non richiede una petizione online per farlo. E soprattutto, parliamone. Così, forse, ritorneremo a mettere la testa fuori dal guscio.


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